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Chi ha compagni non muore mai!

Riceviamo fra i commenti un ricordo dell’anarchico e antifascista Guido Bertacco. Chi ha compagni non muore mai!

IN MEMORIA DI GUIDO BERTACCO
di Gianni Sartori

Ho rinviato a lungo prima di scrivere questo ricordo del compagno Guido Bertacco scomparso già da alcuni mesi (marzo 2015). Aspettavo forse che qualche altro sopravvissuto del MAV (Movimento Anarchico Vicentino) prendesse l’iniziativa? Difficile, dato che ormai in giro non è rimasto nessuno o quasi, almeno per quanto riguarda la militanza. Oltre a Guido, nel corso degli anni se ne sono andati per sempre Anna Za, Laura Fornezza, Mario Seganfredo, Patrizia Grillo, Nico Natoli… E vorrei qui ricordare anche Giorgio Fortuna, sicuramente un libertario, presente fino alla fine alle iniziative contro il Dal Molin.

Qualcuno che aveva conosciuto le dure galere di Stato per militanza ha poi cercato altrove un posto dove ricominciare a vivere; altri ancora sono semplicemente invecchiati…

Guido (assieme a Claudio Muraro e Rino Refosco, se non ricordo male) aveva partecipato all’esperienza milanese della Casa dello Studente e del Lavoratore. Un breve riepilogo: nell’aprile del 1969 gli studenti occupavano l’Università Statale di Milano in via Festa del Perdono. Quasi contemporaneamente veniva occupato un vecchio albergo a Piazza Fontana. Qui venne applicata una rigorosa autogestione e l’ex albergo ora denominato «Casa dello Studente e del Lavoratore» subirà presto sia gli attacchi dei fascisti (con il lancio di alcune molotov) che una indegna campagna di stampa criminalizzante. Lo sgombero per mano della polizia scatterà all’alba, come da manuale, per concludersi con numerosi arresti. In un libro fotografico di Uliano Lucas c’è l’immagine del processo ad alcuni anarchici in cui si riconoscono un paio dei sopracitati vicentini; in qualità di pubblico rumoreggiante, a pugno chiuso, per il momento non ancora imputati. Secondo una leggenda locale Guido sarebbe partito da Vicenza ancora m-l per ritornarvi anarchico. A Vicenza comunque i tre fondarono immediatamente il MAV e aprirono in Contrà Porti una sede, destinata ad essere perquisita spesso, soprattutto dopo gli eventi del 12 dicembre. I visitatori venivano accolti da uno striscione un pochettino situazionista «Date a Cesare quel che è di Cesare: 23 pugnalate!». Del resto era questo il clima dell’epoca.

Di tutto l’impegno di una quindicina di compagni (più o meno sempre gli stessi con qualche abbandono e qualche rientro in corso d’opera) tra la fine degli anni sessanta e i settanta resta poco. Forse i reperti più consistenti (entrambi gelosamente conservati dal sottoscritto) sono una bandiera rossa con A cerchiata nera (non proprio ortodossa, ma ha sventolato ai funerali del Borela, ardito del popolo di Schio) e un pacco di volantini di cui credo non esistano altre copie. Sono quelli distribuiti nel corso di un paio d’anni (1971-1972), regolarmente, almeno uno ogni 15 giorni, davanti al locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi) in epoca pre-Basaglia; quasi una lotta d’avanguardia per chi aveva letto, se non «La maggioranza deviante», almeno «Morire di classe». Denunciavamo le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi («disadattati» secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall’interno c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: il compianto medico Sergio Caneva, fedele alla sua giovinezza partigiana, destinato a morire proprio mentre teneva una conferenza sulla Resistenza.

Il lavoro del MAV era stato apprezzato dai compagni del Germinal di Carrara (da non confondere con l’omonimo gruppo anarchico – e giornale – di Trieste con cui comunque si era in contatto) dove avevamo mandato copia dei volantini e degli articoli comparsi sulla stampa locale. Alfonso Failla, per anni direttore di «Umanità Nova» e Umberto Marzocchi (volontario in Spagna nelle Brigate Internazionali con Camillo Berneri; toccò a lui nel maggio 1937 riconoscerne il corpo dopo che era stato assassinato dagli stalinisti) ci invitarono per prendere contatti ed eventualmente allargare il discorso contro le istituzioni totali. Partimmo in quattro nel novembre del 1972. Oltre a me e Guido (l’unico con la patente e l’auto, gli altri tre eravamo tutti motociclisti) facevano parte della delegazione Stefano Crestanello e Mario Seganfredo (detto Mario Cavejo per evidenti motivi) che quattro anni dopo perì in un incidente stradale. Dopo aver deciso di cogliere l’occasione per visitare anche altri gruppi lungo la strada, ci stipammo nell’auto di Guido. Prima tappa Reggio Emilia (o era Parma?) dove, nella biblioteca del locale gruppo anarchico, ci accolse un incredibile compagno ottantenne. Aveva fatto tutto: l’ardito del popolo, la Spagna, la Resistenza, l’USI…

Conservo il ricordo di un intenso abbraccio tra lui e Guido, quasi un passaggio di testimone. Alla notte, dopo aver fatto la conta, Guido e Mario dormirono in macchina (dove c’era posto per due), io e Stefano all’addiaccio nel sacco a pelo. In seguito ci demmo il cambio, credo.

Il giorno dopo, sosta in un bar sulla sommità di un passo appenninico dove percepii una sensazione da «confine del mondo». Ricordo delle rocce rossastre, color ruggine (erano forse le Metallifere del mistico ribelle Lazzaretti?) e Mario suonò un pezzo rock (suscitando qualche sguardo perplesso negli avventori, peraltro cordiali) sul vecchio pianoforte che completava l’arredo. Poi Carrara: due giorni a parlare, discutere, nella mitica sede del Germinal con Failla e Marzocchi, combattenti inesausti.

Alla parete la risoluzione di Kronstadt (quella del 1921) e un’immagine di Rosa Luxemburg.

Dopo una discussione, amichevole ma tesa, su CHE Guevara (che io comunque difendevo a spada tratta, con spirito ecumenico), Marzocchi mi regalò un libro su Malatesta. A Genova pernottammo da un amico di Guido, un musicista. Dopo Milano Mario scese nel cuore della notte proseguendo per Bologna, dove aveva una morosa, in autostop. La nostra scorribanda si concluse a Peschiera. Giungemmo in tempo per partecipare alla manifestazione davanti al carcere militare che in quel periodo ospitava soprattutto obiettori totali, in maggioranza testimoni di Geova e anarchici (tra cui un nostro compagno vicentino, Alberto P.). Ci fu anche una carica dei carabinieri. Da Carrara portammo a Vicenza un pacco di manifesti (poi denunciati e sequestrati) per Franco Serantini, il compagno assassinato a Pisa qualche mese prima (maggio 1972). Scoprii al ritorno che lo stato si era premunito di avvisare la mia famiglia del fatto che mi trovavo a Carrara in un covo di sovversivi (il Germinal) e non, come avevo elegantemente detto, a Padova per ragioni di studio (all’epoca alternavo periodi di facchinaggio con la militanza e improbabili percorsi universitari). Gentile da parte sua, lo Stato intendo.

Che altro dire di Guido? Forse di quella volta che lo incontrai in corso Palladio con un paio di bastoni diretto al liceo dove il giorno prima i fascisti avevano sprangato alcuni compagni (in particolare, il futuro storico Emilio Franzina e Alberto Gallo, figlio del noto avvocato, figura di spicco della Resistenza vicentina). Mi invitò a partecipare alla sua «spedizione punitiva» e sinceramente non me la sentii di lasciarlo andare da solo «incontro al nemico», ma in cuor mio sperai ardentemente che quel giorno i fasci si fossero presi un giorno di ferie (anche perché qualche giorno prima era toccato anche a me di partecipare ad uno scontro dove me la ero cavata con qualche legnata, in parte restituita). Ma se penso a Guido lo rivedo in piedi, in tuta da imbianchino, barba e capelli lunghi, aspettare la figlioletta all’uscita dalla scuola elementare di via Riello. Immancabilmente, ogni giorno. Proletario, ribelle e rivoluzionario, senza mai perdere la tenerezza.

Ci mancherà.

Gianni Sartori

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One Response

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  1. Gianni Sartori says

    nda: Una breve precisazione. Come mi ha fatto notare Franco Pianalto (vecchio militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista; oltre che amico di Bertacco) nell’articolo su Guido avevo dimenticato il ruolo fondamentale svolto nel lavoro di controinformazione sul manicomio di Vicenza di un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico Sergio Caneva, ma non parente). Provenivano direttamente da lui gran parte delle informazioni sulla vergognosa situazione in cui versavano i reclusi e per il suo impegno subì angherie e vere e proprie persecuzioni che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, in collaborazione con un altro sindacalista e socialista, un Sartori, aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani” in quanto i due medici che dirigevano il lager, pardon il manicomio, non trovavano un accordo sui cucchiai. Mentre per uno dovevano essere di legno, per l’altro di stagno. Non è una barzelletta; perfino il Giornale di Vicenza dovette occuparsene con un articolo carico di, per quanto moderata, indignazione. Questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato “68”! A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) rendiamo quindi il dovuto onore.
    Gianni Sartori