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Priebke, Napolitano e altri diversamente infami

Ieri non vi è stata alcuna radio commerciale, anche di destra, che non abbia definito Priebke un «boia». Anche la Chiesa Cattolica, che un tempo aiutava i nazisti a nascondersi, non ha voluto che il funerale si svolgesse in luogo consacrato. E dinanzi alle stragi di migranti nel Mediterraneo il capo del governo italiano si è detto favorevole a cancellare subito la legge Bossi-Fini…

Sta cambiando qualcosa? Forse il grande capitale europeo sta valutando che l’estrema destra non è un’opzione percorribile per affrontare la crisi? O è solo l’eterno gattopardismo della Politica per cui «bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga com’è»?

Intanto su «L’Unità» si possono leggere enunciati che sarebbero stati impossibili solo due o tre anni fa:

«La legge Bossi Fini è fascismo. Fascismo che sopravvive oggi. Sono contenta di averlo sentito dire da qualcun altro, perché è da tempo che ai ragazzi delle scuole in quei miei percorsi di memoria cerco di spiegare la sostanza di quella legge. Fascismo oggi non sono soltanto le svastiche o gli slogan o le sfilate grottesche o ridicole dei nostalgici o neonazi o neofasci. Sono brutti e condannabili anche quelli, per la violenza che esaltano. La Bossi-Fini è una legge fascista perché prevede e impone una condanna a persone che non hanno commesso alcun reato. Come gli ebrei condannati in quanto ebrei».

Certo, la legge Bossi-Fini è fascismo, come lo era del resto la legge precedente firmata da Giorgio Napolitano e da Livia Turco nel 1998.

Infatti, le leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini hanno sovvertito il diritto all’inviolabilità della libertà personale, che figura tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 13), con l’istituzione di carceri su base etnica e dipendenti dall’autorità amministrativa (i Centri di permanenza temporanea o CPT, poi CIE), dove per quasi vent’anni gli emigrati sono stati rinchiusi senza processo, senza difesa, senza diritti.

Istituiti dal governo Prodi con la legge Turco-Napolitano – votata da un’ampia schiera di forze parlamentari: da AN ai DS, a Rifondazione e ai Verdi: favorevoli furono fra gli altri Nichi Vendola, Francesco Giordano, Ramon Mantovani, Paolo Cento… – e assecondati anche da giunte di centro-sinistra come quella dell’Emilia-Romagna o da amministrazioni «rosse» come quella di Modena, i CPT (poi CIE) rappresentano il monumento al degrado fascistoide delle già irrisorie libertà borghesi.

Nel 1998, con la legge Turco-Napolitano si apriva in Italia quel lungo periodo di soprusi e impunità per le forze dell’ordine che ha portato alle sevizie di Bolzaneto, ai continui pestaggi nelle questure, ai tanti omicidi di persone «fermate» dalle forze dell’ordine, a una politica soffocante della paura e della «sicurezza».

Certo, noi non ci spingeremmo mai a paragonare Bossi, Fini – e implicitamente anche il presidente Napolitano – al boia Priebke, come fa ora «L’Unità». Per noi lo sterminio nazista degli ebrei conserva tratti di razzismo biologico diversi dall’attuale razzismo di Stato. Ma anche per noi quelle leggi, quei nomi sono diversamente infami.

Giorgio Napolitano più che un riformista si direbbe un trasformista, uno che ha cambiato casacca a ogni buona occasione. E in questo risulta davvero un «itagliano» modello.

Nel luglio del 1941 Giorgio Napolitano, in un articolo pubblicato su «Il Bò. Giornale di Padova» dal titolo «L’Operazione Barbarossa civilizza i popoli slavi», auspicava «un corpo di spedizione italiano per affiancare il titanico sforzo bellico tedesco», allo scopo di «far prevalere i valori della Civiltà e dei popoli d’Occidente sulla barbarie dei territori orientali».

Nel novembre del 1956 le truppe sovietiche entrano in Ungheria con 200.000 uomini e 4000 carri armati, più di quanti la Germania nazista ne avesse scagliati nel giugno del 1941 contro l’Unione Sovietica nell’Operazione Barbarossa, e spegne nel sangue la rivolta ungherese (oltre ai morti in combattimento, vi furono circa 1200 esecuzioni). In quei giorni, Giorgio Napolitano scriveva: «L’intervento militare sovietico in Ungheria non si giustifica solo dal punto di vista delle esigenze militari e strategiche. Esso ha contribuito in misura decisiva a salvare la pace nel mondo».

Nel marzo del 1997, di fronte ai profughi che giungevano sulle coste pugliesi dalla guerra civile in Albania, Giorgio Napolitano sostenne che «Ai profughi albanesi non va dato l’asilo, ma va fornita solo assistenza. I campi profughi per accogliere gli albanesi vanno sì fatti, ma non da noi, bensì a casa loro».

Nel marzo del 1998 è uno dei due autori della legge Turco-Napolitano. È il primo atto di un nuovo «razzismo di Stato» che cancella il diritto all’inviolabilità della libertà personale e inquina man mano la precaria vita civile di questo paese.

Dopo aver appoggiato nel 1999 i bombardamenti sulla Serbia, il 18 marzo 2011 Giorgio Napolitano caldeggia anche quelli sulla Libia: «Nelle prossime ore ci attendono scelte difficili per la situazione in Libia, ma se pensiamo a quello che è stato il Risorgimento come movimento liberale e liberatore, non possiamo restare indifferenti alla sistematica repressione di fondamentali libertà in qualsiasi paese».

Prima fascista, poi si iscrive al PCI. Caduto lo stalinismo, diventa migliorista vicino al PSI. Caduto il PSI con Tangentopoli, diventa riformista. Caduto il muro di Berlino, diventa democratico e bipartisan. Sempre però dalla parte dei poteri forti, sempre contro la povera gente. Un uomo rappresentativo di uno Stato troppo spesso al servizio delle grandi famiglie «capitaliste» del Nord e «mafiose» del Sud.

Che cos’è allora questo «fascismo che sopravvive oggi» di cui parla «L’Unità»? Soltanto la Bossi-Fini? O il nostro è un paese che non si è mai liberato del tutto dall’autoritarismo, dalla violenza, dal familismo razzista del Ventennio?

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