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[BO] «La notte delle bombe»

Da settimane i giornali locali, con in testa il «Resto del Carlino», non hanno fatto altro che invocare «guerra» e «pugno di ferro» contro occupanti di case, antifascisti, rom, centri sociali, anarchici, graffitisti, e chiunque non assomigli al modello unico del benpensante bianco eterosessuale.

Da più parti l’idea è quella di fare dell’antitesi fra «sicurezza» e «degrado» il tema fondamentale della gestione della città e, implicitamente, della prossima campagna elettorale per l’elezione del sindaco nel 2016. Una modica strategia della tensione per disciplinare la gente intorno a un problema assai marginale se non inconsistente, e distoglierla da questioni più concrete e rilevanti, come una vita decente, la casa, il salario, un minimo di giustizia sociale.

Già uno dei primi teorici dello Stato moderno come Jean Bodin sosteneva che il modo più efficace per conservare il potere e garantirsi dalle proteste è quello di inventarsi un nemico: «le plus beau moyen de conserver un Etat et le garentir de rébellions, séditions et guerres civiles, et d’entretenir les subiects en bonne amitié, est d’avoir un ennemi auquel on puisse faire tête» (Bodin, Les six livres de la République).

Così han fatto Ilaria Giorgetti & Galeazzo Bignami nella loro campagna pubblica contro occupazioni e centri sociali. E lo stesso può dirsi per il sindaco Virginio Merola con la sua «armata della sicurezza» e i suoi «cittadini di serie A» nei panni di guardie civiche, paragonati dai giornali nientemeno che ai Caschi blu dell’ONU.

Non sorprende che in questo clima ci possa essere anche qualcuno che cade nella trappola delle dichiarazioni di «guerra» e inscena un po’ di spettacolo a beneficio dei media borghesi, o forse che vuole invece incrementare la militarizzazione del territorio perché si sente o è realmente collaterale alle politiche di normalizzazione. Ed è peraltro un’ottima occasione per rilanciare le consuete, estenuanti montature investigative e giornalistiche contro l’attivismo anarchico, con i soliti sequestri di utensili di uso comune e bandiere No Tav.

In questa cornice d’allarmismo si spiega quel che il «Carlino» ha enfaticamente chiamato la «notte delle bombe».

Un grosso petardo fatto esplodere nella notte tra la saracinesca e l’ingresso della sede di CasaPound, guarda caso proprio quando i neofascisti non pagavano più l’affitto da otto mesi ed erano in procinto di traslocare in altra sede che intendono tener segreta.

Un finto congegno costituito da una tanica di benzina e due bombole di gas da campeggio che pare non potesse esplodere, rinvenuto sul retro di una sezione del PD in via Dozza.

Infine, ma senza che i media locali dessero risonanza all’episodio, la vetrina di un bar antifascista sfondata a colpi di mattone, e con strappati i cartelli all’ingresso che intimano a fascisti, sessisti, lesbofobi, transofobi, omofobi e razzisti di stare alla larga dal locale.

Ma quello che le cronache dei giornali non dicono è che l’attuale chiusura della sede di CasaPound è il frutto della continua, molteplice e a quanto pare anche efficace campagna di controinformazione che senza sosta Bologna Antifascista e il Coordinamento Murri hanno portato avanti con volantinaggi, presidi, cortei, feste antirazziste e antifasciste.

Se i vertici di CasaPound hanno deciso di smettere di investire denaro sulla sede di Bologna, non lo si deve certo a tardivi petardi notturni, ma a una mobilitazione sociale diffusa che ha coinvolto migliaia di persone e che ha precluso ogni spazio sociale alla cultura autoritaria e violenta del neofascismo. Altrimenti avremmo avuto forse anche a Bologna un Gianluca Casseri, un Giovanni Battista Ceniti.

Sono le politiche della «sicurezza» a favorire una saldatura sottotraccia fra istituzioni, forze dell’ordine e squadrismi di destra. Oggi appare ormai evidente come il cumulo di pacchetti-sicurezza, leggi e norme tesi a discriminare, inferiorizzare, perseguitare immigrati e rom abbia ottenuto anche un secondo scopo: favorire la propaganda neofascista, promuovere lo squadrismo contro i «diversi», accendere le torce dei raid contro i campi nomadi, armare la mano di killer razzisti.

È un fatto che le politiche della «sicurezza» – che a Bologna hanno fatto il loro ingresso nel 1999 con Giovanni Preziosa, amico dei poliziotti assassini della Uno Bianca – non abbiano mai portato fortuna ai politicanti che le hanno fomentate e alle città che le hanno dovuto subire.

Basta guardare la Roma del post-Alemanno di queste ultime settimane. Un liceale picchiato e finito in ospedale perché antifascista. Un assalto omofobo all’associazione Dì Gay Project al grido di «Vi bruceremo tutti». Faide e agguati fra neofascisti per spartirsi i guadagni, come l’ultimo conflitto a fuoco che ha visto coinvolto un dirigente di CasaPound…

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