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La Resistenza delle donne

Riceviamo e condividiamo le parole pronunciate da una compagna femminista sul palco del Pratello R’esiste il 25 aprile scorso.

Fino alla fine degli anni ’70, la storiografia ufficiale sulla Resistenza continua a proporre la formula del «prezioso contributo femminile» nell’accezione della convergenza temporanea e non del «fare» Resistenza, «far parte integrante» di una lotta.

Bisognerà aspettare la pubblicazione di alcuni testi («La resistenza taciuta», a cura di A.M. Bruzzone e R. Farina, 1976; «Compagne» di B. Guidetti Serra, 1977) per dar conto di una ricostruzione più attenta della partecipazione delle donne. Per sgomberare il campo da retaggi culturali che obbligano le donne in posizione di subalternità anche quando, armi in mano, pareggiano il conto tra il bisogno di liberarsi dal nazifascismo e quello di rivendicare la libertà di donna.

Nella storiografia resistenziale, difatti, alle donne sono state  riservate le classiche appendici di 2 paginette nei tomi che ne contano 600….

Questo è quanto invece offre in gran parte la memorialistica, nel rendere omaggio a qualche icona femminile, protagonista nella storia della Resistenza.

«A Firenze ci fu per esempio una ragazza di nome Tina Lorenzoni. Aveva 25 anni. […] i tedeschi e i repubblichini controllavano con ogni mezzo le rive del fiume. […] Per ben tre volte Tina riuscì ad attraversare le linee per assicurare il collegamento tra i resistenti. Venne presa e messa in prigione: tentò di fuggire. Venne ripresa, fucilata. La motivazione della medaglia d’oro che anni dopo le fu conferita, dice di lei: “angelo consolatore tra i feriti”. Tutta quella spericolatezza, tutto quel coraggio, umiliate da un qualche funzionario addetto alla scrittura, che non conosceva le parole da pronunciare per definire una persona come Tina».

[Marisa Ombra, Libere sempre: una ragazza della Resistenza a una ragazza di oggi, Torino, Einaudi, 2012]

Nella realtà i compiti dei Gruppi di Difesa erano numerosi: il sostegno ai prigionieri e alle loro famiglie attraverso il Soccorso Rosso, la mappatura degli spostamenti delle truppe tedesche e dei punti minati, la raccolta di fondi, vestiti e beni di prima necessità per le brigate partigiane, la redazione di articoli per i giornali clandestini, la compilazione di documenti falsi, gli assalti a magazzini di viveri, il trasporto di ordini, armi e munizioni, l’attivazione di reti di assistenza nelle case e negli ospedali.

Si tratta di un insieme di compiti essenziali sia per lo sviluppo della lotta armata che per la tutela materiale della comunità; ed è molto più di quanto lasci intravedere il termine miniaturizzante di staffetta. Essere una organizzazione di “base”, con un termine geometrico che fa pensare a una valutazione politica diminutiva, significa invece, ed ha significato allora, essere fondamenta, senza le quali il resto non può reggere.

Ma i GDD non hanno rappresentato solo uno degli organismi della resistenza al nazifascismo, essi ebbero sin da subito anche un preciso indirizzo relativo alla condizione femminile, in particolare al nesso tra lotta di liberazione ed emancipazione.

Sin dal programma d’azione del 1943, i GDD rivendicano l’eguaglianza della donna nella vita civile, la risoluzione del problema del doppio lavoro (quello fuori casa e quello domestico), l’accesso a qualsiasi professione e percorso di istruzione e soprattutto condizioni paritarie di retribuzione.

È su questo terreno che, a liberazione avvenuta, ha trovato la sua radice un grande sciopero, tutto femminile, il 14 luglio 1945, per ottenere la parità d’indennità di contingenza con gli uomini.

«La Stampa», la busiarda, non dà notizia della imponente manifestazione che una settimana dopo, per diramare un comunicato del Governo Militare Alleato, che preso atto che nei giorni precedenti vi è stata a Torino una :«manifestazione disordinata di lavoratrici diretta a conseguire un trattamento di carovita uguale a quello dei lavoratori», e sconfessa l’esito vittorioso, poiché: «la firma del rappresentante dell’Industria non è stata apposta liberamente, in quanto sono state esercitate delle pressioni su di lui sia con una tumultuosa dimostrazione che è culminata nell’invasione della sede dell’Unione degli Industriali, sia perché gli furono prospettate gravi responsabilità per futuri disordini».

Infine, l’Ufficio regionale del lavoro, comunica che le rivendicazioni delle lavoratrici sono state accolte. E Torino fu l’unica città in cui, per un anno, le donne godettero della parità di indennità di contingenza con gli uomini. Dopo fu un’altra cosa. Non troviamo traccia nel resto della pubblicistica di questa importante manifestazione, né di tanti aspetti dell’attività dei GDD.

Non c’è più la contingenza salariale ma il divario retributivo persiste nei secoli. Il divario esiste quando uomini e donne ricevono un diverso compenso per lo svolgimento di uno stesso lavoro o di un lavoro equivalente. Un divario retributivo di genere compreso fra il 17 e il 22% con picchi fino al 60% nei lavori autonomi, significa che le lavoratrici ricevono una paga oraria inferiore rispetto ai corrispondenti lavoratori maschi. Il divario retributivo di genere è sia causa sia conseguenza della disparità fra i uomini e donne.

Se a questo si aggiunge la precarietà selvaggia del lavoro soprattutto femminile che richiede più flessibilità per garantire il lavoro di riproduzione; si aggiunge la conciliazione tra tempo di vita e di lavoro introdotta dal Job Act, che di fatto aumenta le opportunità di permessi per motivi familiari ma sottraendoli dalla retribuzione (provvedimenti che sono stati avallati dalle neofemministe del «pensiero della differenza» e dai sindacati confederali); se si aggiunge il taglio drastico del welfare o lo spostamento dello stesso su piani privatistici-aziendali; se aggiungiamo l’aumento dell’età pensionabile, l’uso selvaggio del voucher impiegato per più del 50% sul lavoro delle donne si capisce che 70 anni sono passati invano e che abbiamo 1000 motivi per tornare a lottare.

In ultimo, e non per importanza, hanno dichiarato guerra alle donne: centinaia di donne uccise ogni anno. Quando si dichiara guerra alle donne le compagne partigiane ci hanno insegnato che bisogna impugnare le armi della lotta dura e dell’autodeterminazione.

È quello che stanno facendo le compagne Kurde, che da 40 anno lottano anche contro il patriarcato, il più arcaico, il più duro; e che ci insegnano che qualunque processo di liberazione non può prescindere dalla liberazione delle donne.

È a tutte loro che dedichiamo questo 25aprile.

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