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Solidarietà ai prigionieri politici curdi in Iran

Ovviamente sui media italiani si parla solo dell’infanzia difficile della Borgonzoni o di quanto è serafico il premier Conte o, al limite, dell’ultima sparata del Ministro dell’Inferno, “da papà”, contro i malati psichici…

SOLIDARIETÀ AI PRIGIONIERI POLITICI CURDI IN IRAN

di Gianni Sartori

Risale al 2 luglio il gesto disperato di Marjan Behrouzi, la mamma di Hedayat Abdullah Pour, prigioniero politico curdo arrestato due anni fa e condannato a morte in Iran.

Un evento – a mio avviso – che non ha trovato adeguato risalto sui media.

Marjan si era cosparsa di liquido infiammabile (benzina, presumibilmente) per immolarsi davanti all’ufficio del governatore di Shenoy. Il suo atto estremo venne però bloccato dall’intervento di alcune persone che avevano visto quando stava accadendo. Qualche giorno prima, il 30 giugno, era stato arrestato dai servizi di sicurezza nella sua abitazione anche Farhar, fratello di Hedayat. È accusato di aver collaborato con un partito dell’opposizione clandestina curda. Stando alle dichiarazioni di un familiare, dopo aver subito brutali torture, Farhar sarebbe stato trasferito in un commissariato di Oroumieh. Inoltre anche Abu Bakr, padre dei due prigionieri politici, era stato sottoposto a interrogatori e maltrattamenti.

E tutto questo avrebbe alimentato la comprensibile disperazione della madre.

Hedayat Abdullah Pour era stato arrestato nella città di Oshnavieh (in curdo: Sino) e accusato, sostanzialmente senza prove, di fare attività di propaganda per un partito clandestino di opposizione, di appoggiare i guerriglieri curdi del PJAK* e anche di aver preso parte a scontri con i pasdaran (guardiani della rivoluzione islamica). L’accusa di legami con la guerriglia curda viene utilizzata abitualmente dalle forze di sicurezza iraniane come pretesto per arrestare qualsiasi attivista curdo, sia o meno effettivamente legato a qualche organizzazione clandestina.

In aprile un altro militante curdo era stato condannato a morte, nel processo di appello, dalla Corte suprema di un Tribunale Islamico Rivoluzionario.

Al momento della condanna Ramin Hisen Penahi, di 24 anni, era ancora in sciopero della fame (da gennaio) per protestare contro la prima condanna. Le accuse nei suoi confronti sono di far parte dell’organizzazione Komala** e di “lottare contro il governo islamico”.

Era rimasto ferito nell’imboscata tesa dai pasdaran a un gruppo di quattro presunti resistenti. Unico sopravvissuto all’agguato (al momento della cattura non era nemmeno armato), Ramin Penahi era stato poi torturato, con la possibilità di vedere il suo avvocato soltanto una volta, brevemente e alla presenza di agenti. Il suo processo era durato soltanto un’ora.

Anche la madre di questo prigioniero politico curdo si era mobilitata per la salvezza del figlio. In maggio aveva rivolto un appello a Federica Mogherini – rappresentante UE per la politica estera e la sicurezza – affinché l’unione Europea intervenisse per protestare contro l’esecuzione (con la data già stabilita) di Ramin.

Aveva scritto: “Questa è la lettera di una madre da un piccolo comune nel Kurdistan iraniano. Una madre il cui cuore ogni giorno si riempie della paura che una parte del suo cuore venga giustiziato. Capisce cosa significa?

Sono una madre con un cuore in fiamme. Da tre anni non c’è sollievo. Da lunghi anni sostengo i miei figli che parlano di legalità e giustizia. Ma qui tutto è vietato. Quello che vivo oggi ricorda l’inferno.

Sono sicura che avrà sentito il nome di Ramîn Hisên Penahî. Perfino se Ramîn dovesse aver fatto un errore, la sentenza contro di lui non può essere un’esecuzione. Ho ragione con quello che dico? Ramîn è un attivista politico. Vogliono giustiziarlo perché hanno costruito un sistema della menzogna. Vorrei che Lei incontrasse i responsabili in Iran e fermi l’esecuzione di Ramîn. L’Iran deve essere condannato davanti alla Corte di Giustizia Europea. Per via di mio figlio piccolo Ramîn ogni giorno è un peso per me. Si metta nella mia condizione. Faccia qualcosa per impedire questa catastrofe. Sono certa che Lei possa fare qualcosa. Vorrei che si impegni seriamente per fermare questa decisione. Non permetta che Ramîn venga giustiziato.

Ogni commento sarebbe superfluo e fuori luogo.

Gianni Sartori

*nota 1: il PJAK (Partito della vita libera in Kurdistan; in curdo Partiya Jiyana Azad a Kurdistane) è un’organizzazione che opera, anche con l’autodifesa armata, nel Rojhelat (i territori curdi sotto l’amministrazione iraniana). Viene considerato legato al PKK e fa parte dell’Unione delle Comunità del Kurdistan.

**nota 2: Komala (“Società”) è un’organizzazione curda la cui origine risale al 1969. Il nome completo è Komeley Sorrisgerri Zehmetkesani Kurdistan Eran (KSZK, Società dei lavoratori rivoluzionari del Kurdistan).

Nacque nel 1968 (con un impianto ideologico marxista-leninista, inizialmente maoista) come movimento di opposizione alla dispotica monarchia persiana e per difendere la popolazione curda. Venne duramente represso dalla Savak. Con la rivoluzione iraniana, si trasforma in partito politico – laico – opponendosi al referendum per l’istituzione di una repubblica islamica. Dotato di una forza di autodifesa armata, attiva soprattutto nella provincia di Sanandaj, nel 1982 contribuisce alla ricostituzione del Partito comunista dell’Iran. Ne prenderà le distanze nel 2000 con la nascita dell’Organizzazione rivoluzionaria del popolo del Kurdistan.

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