Oggi il ritorno di una diffusa cultura razzista in Italia non deve far dimenticare la sua lunga storia che affonda le radici nel formarsi degli stati moderni. Nell’ottobre del 1884, a Giovanni Verga fu chiesto di scrivere qualche riga per una pubblicazione di beneficenza in favore degli «italiani danneggiati dal colera». E raccontò una delle tante stragi di zingari, dovute alla credenza che spargessero malattie ed epidemie. Vi ricorda qualcosa? Ad esempio qui e qui…
UNTORI
In questa pubblicazione ispirata dalla carità, racconterò uno dei tristi episodî di un’altra epoca triste, in cui la superstizione e la sventura avevano spento la carità e l’umanità insieme.
Il colèra infieriva tutt’intorno, e col colèra la fame. La povera gente che non lavorava più aspettava ansiosa e sospettosa sugli usci delle povere case. Un dì sull’imbrunire si vide arrivare in fondo alla lunga via deserta che menava al villaggio un convoglio strano. Era una famigliuola di zingari; l’uomo faceva il calderaio; la moglie diceva la buona ventura; la figlia, una bruna superba, portava attaccato al petto già vizzo a 18 anni un bambino. Dei suoi 18 anni non aveva più che dei grandi occhi neri che le illuminavano il viso. Tutta la loro casa li seguiva in un carretto sconquassato, coperto da una tenda in brandelli, che veniva avanti traballando, tirato da un somarello macilento. Siccome la popolazione s’era commossa e minacciava al loro apparire, così il sindaco accorse colle guardie, armate sino ai denti, per scacciare quei poveri vagabondi. Essi dissero che venivano da lontano, che non ne potevano più. E allora per non toccarli, per timore d’accostarsi, non li menarono in prigione, li lasciarono lì, nel campo della fiera, guardati a vista come bestie pericolose. Così ramingavano da otto giorni, da un paese all’altro, mangiati dal sole e dalla fame. Il colèra non li voleva neppur esso: cosa che aumentava i sospetti.
Calò una bella sera d’autunno su tutte quelle miserie. Verso mezzanotte gli uomini di guardia videro l’uomo che si era insinuato carponi sino alle prime case del villaggio, e razzolava nel mondezzaio. Colà l’uccisero di una schioppettata, con un torsolo di cavolo ancora in pugno, e il petto della camicia gonfio di bucce e di frutta marcie. A quello scoppio, a quel sussulto la marmaglia sorse tutta spaventata, urlando vendetta, e irruppe feroce su quei miseri. La vecchia fu raggiunta sul limite del campo. La giovinetta dinanzi alla carretta, coi grand’occhi pazzi di terrore, alzava le braccia disperate per farne schermo alla sua creatura, mentre le scuri luccicavano.
Nel mucchio di cenci del pagliericcio gli assassini asserirono poi di aver trovato il veleno degli untori, per far tacere il rimorso di quegli occhi sbarrati che luccicavano sempre nelle notti insonni.
Villa Conti, 18 settembre 1884.
CURDI E PALESTINESI UNITI CONTRO L’OPPRESSIONE CON IL SOSTEGNO DEI SUDAFRICANI
(Gianni Sartori)
Tra le molteplici condanne espresse in questi giorni per le brutali uccisioni operate dall’esercito israeliano, acquista particolare rilevanza quella del Comitato Esecutivo del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan): “Israele ha aperto il fuoco su manifestanti a Gaza uccidendo dozzine di palestinesi. Condanniamo con forza il massacro di Gaza e porgiamo le nostre sincere condoglianze alle famiglie dei martiri e al popolo palestinese”.
Nella dichiarazione del PKK si afferma poi che “il conflitto tra Palestina e Israele non potrà essere risolto con la violenza: Gerusalemme è la capitale di tutte le religioni e perfino dell’umanità. Dichiarare questa città capitale di Israele è una mancanza di rispetto nei confronti delle religioni e allo stesso tempo una provocazione. È evidente che l’annoso conflitto israelo-palestinese non si può risolvere con la violenza, ma solo attraverso un dialogo e negoziati. Ogni uso della violenza porta solo a un inasprimento dei problemi. Il recente massacro lo ha dimostrato ancora una volta.”
Il comunicato prosegue ricordando come i palestinesi non abbiano lottato solo per la propria liberazione, ma anche “sostenuto lotte per la libertà e la democrazia in altre parti del mondo. Anche il movimento di liberazione curdo sotto la guida del PKK ha avuto sostegno”. Peraltro, almeno nel caso dei Curdi, ricambiati: “Nella guerra in Libano nel 1982 quadri del PKK hanno combattuto fianco a fianco con palestinesi, 13 di loro sono caduti martiri in questa guerra. La solidarietà del popolo curdo con il popolo palestinese e arabo continua come allora.”
Un destino tragicamente simile, pressoché identico, quello delle due “Nazioni senza Stato” curda e palestinese.
Due Stati, Turchia e Israele, praticano entrambi un “colonialismo genocida” con il sostegno di altre potenze, regionali e non.
Quanto alle lacrime oggi versate dal governo turco dell’AKP di fronte all’ennesimo massacro perpetrato contro il popolo palestinese, per il PKK sono soltanto “lacrime di coccodrillo”.
Nonostante qualche momentaneo contenzioso i rapporti tra Stati oppressori rimangono sostanzialmente solidi. Sia gli aerei F-35 (quelli che Ankara sta per acquistare dagli USA), sia i droni utilizzati dalla Turchia nell’attacco contro Afrin, sono costruiti con tecnologia israeliana e statunitense. E del resto “la Turchia ha appreso da Israele e dagli Stati Uniti le più complesse tecniche per la sua sporca guerra contro la lotta del popolo curdo”. Per non parlare della probabile collaborazione israeliana (oltre che della CIA) alla cattura di Ocalan in Kenia.
Affermazioni significative e impegnative per il futuro delle lotte di liberazione in Medio Oriente quelle poste a conclusione del comunicato:
“Gli amici più coerenti del popolo palestinese e del popolo arabo in Medio Oriente sono il popolo curdo e il movimento di liberazione sotto la guida del PKK. L’alleanza curdo-araba e la lotta comune avranno un ruolo storico nella liberazione di tutti i popoli del Medio Oriente. Il PKK non dimenticherà né la solidarietà del popolo palestinese né coloro che sono caduti nella guerra contro Israele nel 1982. L’amicizia e la solidarietà e amicizia con il popolo palestinese continuerà anche in futuro.
Condanniamo ancora una volta il massacro a Gaza e ripetiamo che la lotta del popolo palestinese e curdo per la libertà trionferanno sicuramente contro ogni attacco”.
Perché considero tanto importante questa dichiarazione? Principalmente perché è chiarificatrice. Entrambi questi due popoli subiscono repressione e genocidio da regimi autoritari (Israele e Turchia). Entrambi lottano per i loro sacrosanti Diritti (compreso quello all’Autodeterminazione), ma paradossalmente negli ultimi tempi palestinesi e curdi sembravano talvolta trovarsi schierati in campi avversi. O almeno così pretendevano di interpretare – e di spiegarci – alcuni compagni di area “campista” (vedi fra tutti gli interventi contro le YPG – accusate di collaborazionismo con USA e Israele – di Furio Grimaldi; prese di posizione – a mio avviso – quantomeno discutibili).
C’era – va detto – anche qualche brutto precedente, sia da parte dei palestinesi che dei curdi. Per esempio negli anni ottanta elementi palestinesi avevano combattuto contro i curdi per conto di Saddam, mentre è noto che alcune organizzazioni curde si erano apertamente schierate con gli USA (sto parlando del PDK di Barzani ovviamente). In realtà entrambi questi popoli erano – e sono – vittime, oltre che di una brutale repressione di Stato, talvolta anche di strumentalizzazioni interessate. Fermo restando che quando si pretende di giudicarne le scelte tattiche non bisogna dimenticare che in quanto popoli devono comunque poter sopravvivere, continuare ad esistere (e questo talvolta può comportare una certa dose di pragmatismo, se pur obtorto collo).
Quindi questa dichiarazione del PKK, doverosa ovviamente, mi sembra rimetta molte cose al loro posto, chiarisca eventuali equivoci e rilanci possibilità di liberazione per tutti i popoli che subiscono la violenza degli Stati.
E anche dal Sudafrica si è levata una corale protesta contro il massacro al confine della Striscia di Gaza. Paragonato a quelli di Sharpeville (1960), Soweto (1976) e – dato che i militanti della sinistra sudafricana non vivono solo di memoria – anche di Marikana (agosto 2012) dove 34 minatori in sciopero sono stati uccisi dalla polizia.
Evidentemente non soddisfatte del richiamo dell’ambasciatore già operato da Pretoria, alcune componenti della protesta (vedi il movimento BDS, ossia “boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni” ovviamente nei confronti di Israele) chiedevano con forza la fine dei rapporti diplomatici con Tel Aviv la sospensione degli accordi commerciali.
Va ricordato come all’epoca dell’apartheid i rapporti tra Israele e RSA fossero se non ambigui, perlomeno ambivalenti (mentre quelli attuali con la Turchia potremmo definirli “altalenanti”, per lo meno quando si tratta dei curdi). Se da un lato collaborava a livello economico e militare (avrebbe fornito anche gli indispensabili elementi tecnici per realizzare l’atomica) con Pretoria, dall’altro Tel Aviv avrebbe collaborato all’addestramento di alcune formazioni guerrigliere dell’ANC.
Anche se a Johannesburg l’iniziativa è stata piuttosto contenuta (poco più di duecento persone), in tutto il Sudafrica (soprattutto a Città del Capo) sono stati migliaia – complessivamente – i sudafricani che nella giornata del 16 maggio hanno manifestato apertamente la loro disapprovazione per quanto era accaduto (ossia l’uccisione di decine di abitanti di Gaza) e anche per ricordare il settantesimo anniversario della Nakba (la “Catastrofe” per i palestinesi). Forte la presenza dei sindacati tra cui la neonata SAFTU (South African Federation of Trade Unions) e la NUMSA (National Union of Metalworkers of South Africa)
Senza mezzi termini, la condizione dei palestinesi è stata paragonata – per analogia – a quella dei Neri all’epoca dell’apartheid (con il suo retaggio di colonialismo, occupazione delle terre, suprematismo razziale, segregazione territoriale) ricordando come a quel tempo l’OLP si schierasse apertamente contro la segregazione razziale nella RSA.
Per Jessie Duarte, vice segretario dell’ANC, l’Onu avrebbe fallito in quanto “Israele ignora le sanzioni” invocando quindi un “movimento di solidarietà internazionale” per fermare quella che ha definito “azione disumana contro il popolo palestinese”. Così recitava il comunicato ufficiale emesso dall’ANC: “Le vittime partecipavano ad una protesta pacifica. Considerato il modo grave e indiscriminato dell’ultimo attacco di Tel Aviv, il governo sud africano ha deciso di richiamare l’ambasciatore Sisa Ngombane con effetto immediato fino ad ulteriore notifica”. Aggiungendo che “noi guardiamo con incredulità al fatto che un popolo che ci ricorda continuamente l’odio e il pregiudizio che gli ebrei hanno subito durante il regno antisemita di Hitler, possa usare la stessa crudeltà meno di un secolo dopo”. A parte l’uso improprio del termine “antisemita” (d’altra parte ormai generalizzato) penso che nessuno possa avanzare dubbi sulla profonda consapevolezza antirazzista dei militanti dell’ANC (all’epoca dell’apartheid la loro identificazione con gli ebrei perseguitati dal nazifascismo era totale e ne parlo anche per conoscenza diretta) scevra – ca va sans dire – da qualsivoglia ambiguità “rosso-bruna”. Critiche al governo sono però partite da alcune delle principali organizzazioni ebraiche sudafricane (Federazione sionista e Comitato sudafricano ebraico). Il ritiro dell’ambasciatore veniva definito “una mossa oltraggiosa che mostra il doppio standard utilizzato contro lo stato ebraico”. In quanto stato sovrano, Israele avrebbe “il diritto di difendere i suoi confini e i suoi cittadini”: Accusando poi Hamas di “istigare la sua gente ad assaltare la barriera di sicurezza e ad attaccare i civili israeliani”.
Un groviglio se non inestricabile, certo di difficile risoluzione quello che avvolge la questione palestinese. Oltretutto il recente bagno di sangue sul confine ha fornito a Erdogan il pretesto per riciclarsi (lui, il boia dei curdi!) come un paladino degli oppressi. * A mio avviso una possibile via di uscita (sempre che ne esista una) sarebbe quella di confrontarsi, anche in Palestina, con i principi del Confederalismo Democratico, come sperimentato dai curdi in Rojava e – compatibilmente con la difficile situazione- in Bakur. Forse bisognerebbe pensarci. Non solo in Palestina e Kurdistan ovviamente.
Gianni Sartori
*nota 1: E perfino a qualche personaggio dichiaratamente di destra o rosso-bruno di ripresentarsi in versione “antimperialista”. Come negli anni settanta quando neofascisti e neonazisti italici ostentavano un’ambigua solidarietà al popolo palestinese (vedi la “Organizzazione Lotta di Popolo” -OLP- emanazione di Avanguardia Nazionale e forse “antenata” di Terza Posizione) anche se poi i loro nipotini (NAR, Terza Posizione…) in Libano stavano con la Falange maronita e con il maggiore Haddad (e quindi, di fatto, con Tsahal – l’esercito israeliano – come a Sabra e Chatila).
Arrivando perfino ad assaltare l’abitazione del rappresentante dell’OLP (quella autentica, palestinese) a Roma.