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Marcello e la «cultura di destra»

È uscito in questi giorni in libreria Cultura di destra di Furio Jesi, con alcuni inediti e introduzione di Andrea Cavalletti: un libro fondamentale per chi voglia capire e contrastare le culture delle destre, nazifasciste, neofasciste, postfasciste, conservatrici, razziste, omofobe, sessiste, e i loro particolari regimi comunicativi.

Se ne è accorto persino un postfascista come Marcello Veneziani che, punto forse sul vivo, ha subito scritto sul giornale della famiglia Berlusconi, il «Giornale» appunto, una nota di biasimo alla riedizione del saggio di Jesi: «un brutto indizio che si regredisca ai feroci e cupi anni Settanta con un trattato di criminologia culturale».

Ma, detto da lui, è quasi un complimento, anzi un elogio. Anche perché, di là dagli strafalcioni, l’articolo del Veneziani può forse illustrare in miniatura proprio alcuni tratti tipici della «cultura di destra» secondo Jesi: ad esempio la «religio mortis», il vittimismo lugubre e aggressivo. Questo il titolo dell’articolo: «La cultura di destra? Clandestina, ma viva». Così comincia invece il pezzo:

«Chi ha ucciso la cultura di destra? Le piste al vaglio degli inquirenti sono quattro: la sinistra, Berlusconi, Fini, il suicidio. O per dir meglio, le ipotesi finora avanzate sono le seguenti: a) l’egemonia culturale della sinistra con la sua cappa ideologico-mafiosa le avrebbe negato gli spazi di libertà e visibilità fino a soffocarla; b) l’egemonia sottoculturale del berlusconismo in tv e in politica l’avrebbe per metà corrotta e per metà emarginata; c) l’insipienza della destra politica avrebbe demolito ogni ragione culturale e ideale della destra, fino all’epilogo indecente finiano; d) la cultura di destra è evaporata per la sua stessa inconsistenza.»

Scrivendo sul giornale di proprietà di chi possiede rotocalchi e grandi case editrici, lamentare la «cappa ideologico-mafiosa» della sinistra è una vera finezza. Scrivendo sul giornale della famiglia Berlusconi, lamentare «l’egemonia sottoculturale del berlusconismo» è un’altra autentica finezza (come se Veneziani non facesse parte di tale «egemonia sottoculturale»). Credere poi che qualcosa sia stato «demolito» o sia «evaporato», è solo un modo per negare, senza discuterlo, un enunciato fondamentale dell’analisi di Jesi: «la cultura di destra è caratterizzata, in buona o in cattiva fede, dal vuoto» (enunciato che l’acribia del Veneziani addebita al curatore!).

Insomma, «viva» oppure «uccisa»? sacrificata? spettrale? zombie? Per la cultura di destra, dice Jesi, conta solo «il linguaggio delle idee senza parole»: l’inesprimibile infinitamente rimasticato, il «vuoto» che produce discorso, il lutto insondabile dell’identità che diventa violenza contro il diverso, la fascinazione lugubre degli anniversari, dei riti sacrificali, della morte. Per la cultura di destra, solo ciò che si espone alla morte ha valore di vita.

Così, nella sua megalomania il povero Veneziani, scorso in fretta il libro, non è riuscito a trovar nulla di meglio che paragonare la «cultura di destra» a Cristo in croce: «la cultura di destra ha dismesso i panni della cultura militante, panni vecchi e fuori tempo, ed è tornata al Padre. Si è fatta invisibile e celeste, meno legata alla storia e alla lotta, più essenziale ed esistenziale».

Insomma: viva perché morta, piena perché vuota, presenzialista perché invisibile e celestiale, violenta perché assassinata da pseudo-complotti mafiosi, la cultura di destra deve tornare al Padre per poter opprimere, «uccidere» ancora?

Senza volerlo, il Veneziani poliziotto si lascia giudicare dal libro che pretenderebbe di inquisire. Per un libro che ha più di trent’anni, in fondo non è un elogio da poco.

Ecco una scheda del libro:

F. Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, a cura di A. Cavalletti, Roma, Nottetempo, 2011.

“Che cosa vuol dire cultura di destra?” chiede un intervistatore a Furio Jesi nel 1979. È “la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare nel modo più utile, in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola”. Originale mitologo della modernità, Jesi dedica gli studi qui raccolti a individuare le matrici sotterranee, il linguaggio e le manifestazioni delle “idee senza parole” della cultura di destra otto-novecentesca; e lo fa smascherandone i luoghi comuni, le formule e le parole d’ordine che alludono a un nucleo mitico profondo e inconoscibile, ma fondante e modellante, cui fanno riferimento i principi ricorrenti di Tradizione, Passato, Razza, Origine, Sacro. Un “vuoto” da riempire di materiali mitologici, manipolati dalla propaganda politica di destra per legittimare il suo potere e gli ordinamenti sociali dominanti. Da questa prospettiva, Jesi indaga gli apparati linguistici e iconici sottesi al fascismo e al neofascismo, al nazismo e al razzismo, penetra nelle pieghe dell’esoterismo di Julius Evola e del lusso retorico dannunziano, attraversa le pagine di Liala e Pirandello. Questa nuova edizione di un libro ancora attualissimo è corredata da tre inediti e un’intervista.

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