Si sa, i poliziotti sono sempre uomini d’ordine. Dichiarato martire da papa Giovanni Paolo II «per aver salvato 5000 ebrei», riconosciuto come «un giusto» da Israele, in realtà – secondo il Centro Primo Levi – Giovanni Palatucci fu un collaboratore dei nazisti ed ebbe un ruolo fondamentale nel trasferimento ad Auschwitz almeno di 412 ebrei di Fiume.
Anche la Santa Sede, che ha in corso una causa di beatificazione di Palatucci, ha dato incarico a uno storico di studiare la questione: forse potrà sempre inserirlo nel calendario liturgico come protettore degli aguzzini…
«Sappiamo adesso quel che non sapevamo allora, che cioè Palatucci non fu il salvatore in cui è stato trasformato dopo la guerra», ha detto il direttore della Anti Defamation League, l’associazione ebraica che aveva attribuito a Palatucci il suo Courage to Care Award il 18 maggio 2005. Infatti, il poliziotto italiano fu in realtà «un volenteroso esecutore delle leggi razziali» e, dopo aver prestato giuramento alla Repubblica Sociale di Mussolini, collaborò con i nazisti nell’identificazione degli ebrei per la deportazione.
Palatucci morì a Dachau, ma la sua deportazione, nel 1944, non fu determinata dalle sue eroiche gesta per salvare gli ebrei, bensì dalle accuse tedesche di appropriazione indebita e tradimento.
Come in una novella di Boccaccio trasposta sullo sfondo della peste nazista, il «mito» del buon Palatucci iniziò nel 1952 quando lo zio vescovo Giuseppe Maria Palatucci raccontò questa storia per garantire una pensione ai parenti dell’uomo.
Secondo Natalia Indrimi, direttrice del Centro Primo Levi, «Giovanni Palatucci non rappresenta altro che l’omertà, l’arroganza e la condiscendenza di molti giovani funzionari italiani che seguirono con entusiasmo Mussolini nei suoi ultimi disastrosi passi».
In fondo, è una storia istruttiva sotto molti punti di vista. Dal film Sette anni in Tibet (1997) in poi, le storie di nazifascisti redenti o umani, di mirabili «eccezioni» che hanno remato contro la fiumana nera della disumanità e dello sterminio, hanno appassionato l’industria culturale dell’Occidente proprio nell’epoca in cui il razzismo di stato e i movimenti neonazisti e neofascisti tornavano a imporsi all’attenzione dell’Europa.
Ma che cosa vuol dire «umanizzare» il singolo fascista? Non è già un verbo odioso e autoritario, come se toccasse a qualcuno super partes di conferire patenti di «umanità» o, peggio, di «disumanità»? Come se il fascista o il nazista potesse essere, sotto una finta pelle umana, un lucertolone verde? Ha certo ragione chi ci ha scritto che il fascismo funzionava anche grazie ai «fascisti umani». Anzi, forse il gesto di umanità di un aguzzino è ancor più terribile perché mostra che è benissimo in grado di capire la cultura omicida e atroce da cui si è lasciato assoggettare.
C’è un racconto di Marguerite Duras che vuole mettere in scena questa compresenza terribile di «umanità» e di orrore, Il signor X, detto qui Pierre Rabier, in cui troviamo un poliziotto della Gestapo che salva qualche ebreo e qualche partigiana dall’arresto:
«Un giorno,» dice Pierre Rabier, «dovevo arrestare degli ebrei, siamo entrati nell’appartamento, non c’era nessuno. Sul tavolo della stanza da pranzo c’erano delle matite colorate e un disegno di bambino. Sono andato via senza aspettarli.» È arrivato a dirmi che nel caso in cui l’avesse saputo mi avrebbe avvertita del mio arresto. Traduco: nel caso in cui altri, e non lui, avesse avuto l’incarico di arrestarmi. Insomma, è assolutamente indifferente al dolore umano, ma si concede il lusso di certi struggimenti paralizzanti, gli dobbiamo la vita, il piccolo ebreo e io.
[…]
Quella mattina sento con precisione che proprio l’uomo che arresta gli ebrei e li manda nei crematori non resiste allo spettacolo che offro ai suoi occhi, quello di una donna magra e sofferente, perché ne è lui la causa. Dirà spesso che, se avesse saputo, non avrebbe arrestato mio marito. Ogni giorno decideva il mio destino, e ogni giorno, se avesse saputo, diceva, il mio destino sarebbe stato diverso. Che l’abbia saputo o no, prima o dopo, il mio destino era nelle sue mani. È il potere conferito alla funzione poliziesca. Ma di solito, nella polizia, si è separati dalle proprie vittime, lui invece, conoscendomi, aveva la conferma del proprio potere, aveva la meravigliosa opportunità di entrare nell’ombra dei propri atti, di godere di quella clandestinità nei confronti di se stesso.
(M. Duras, Il dolore, Milano, Feltrinelli, 1985, pp. 89-90)
Qui, per il poliziotto nazista detto Rabier il gesto di «umanità» è un «godere», un «concedersi un lusso» che non contraddice affatto alla sua funzione nella macchina dello sterminio: anzi, direbbe Furio Jesi, è una forma di «lusso spirituale».
Nel film American Beauty tutti i personaggi sono «umani» e pieni di problemi, ma solo il nazista – anche lui «umano» e pieno di problemi – uccide. Perché le culture nazifasciste, dominate dall’immagine della guerra per la «vita» fra gruppi «naturali», fanno della violenza e del vuoto il loro fine supremo.
Non si tratta allora di idealizzare il singolo fascista «umano», ma di capire la cultura e le mitologie che muovono le organizzazioni dell’estrema destra. È quello che cercava di fare Carlo Emilio Gadda in Eros e Priapo: conoscere il Fascismo, capire che cos’è, come funziona, fino a che punto i suoi residui dominano ancora il presente. Ed è un progetto letterario e intellettuale che risulta tutt’ora valido:
Be’, i crimini della trista màfia e di tutti li «entusiasmati» a delinquere avendo raggiunto o me’ dirò permeato ogni pensabbile forma del pragma, cioè ogni latèbra del sistema italiano (con una «penetrazione capillare», oh! sì, davvero), è ovvio che tutte le nostre attività conoscitive e le universe funzioni dell’anima debbano intervenire nel giudizio del male, patito e fatto. Tutti i modi, i metodi, le tecniche, le singule operazioni e le discipline della mente sono chiamati a soccorrerci. L’atto di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci prelude la resurrezione se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie.
(C.E. Gadda, Eros e Priapo: da furore a cenere, Milano, Garzanti, 1990, p. 21)
Non si combatte efficacemente il fascismo se non si capisce che cos’è e come funziona la cultura di destra, e fino a che punto quella cultura insidia la nostra intelligenza.
Ora e sempre resistenza!