Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento in ricordo di Malik Oussekine. In questi tempi in cui le lingue biforcute del Potere cercano in tutti i modi di legittimare la violenza poliziesca e la politica del manganello è importante ricordare che cosa siano gli Stati, la «legalità» e il cosiddetto «ordine pubblico».
Gli avvenimenti di questi giorni in Francia hanno riportato sui giornali i nomi di Zyed Benna e Bouma Traoré. La loro morte, il 27 ottobre 2005, fu la miccia per la grande rivolta delle banlieue in novembre. Ma il ricordo corre anche a un’altra «mort indigne», quella di Malik Oussekine.
A PARIGI QUELLA NOTTE ERA CALDO…
LA MORTE INGIUSTA DI MALIK OUSSEKINE
di Gianni Sartori
Sabato 6 dicembre 1986. La mezzanotte è passata da 20 minuti.
Nel garage della Prèfecture de Paris 43 poliziotti del Peloton de voltigeurs motoportés, (cagoule – passamontagna – nero e casco bianco, muniti di matraque – manganello – di legno lungo un metro) ricevono l’ordine atteso per oltre dieci ore: «PMV, en place!».
Un’ora e mezza più tardi Malik Oussekine incrocerà la strada di questi vigilantes di Stato motorizzati. Non ne uscirà vivo.
Un passo indietro.
Nell’estate del 1986 il sindacato studentesco UNEF-ID lanciava una grande mobilitazione contro il progetto di riforma della scuola superiore proposto dal secrétaire d’Etat aux Universités, Alain Devaquet.
Il 22 novembre vengono convocati gli états généraux étudiants alla Sorbonne. Da qui partirà l’indicazione di uno sciopero generale e di una grande manifestazione per il 27 novembre.
Intanto, rispondendo all’appello della Féderation de l’Education nationale, il 23 novembre duecentomila persone scendono in piazza contro la politica educativa del governo. Non è che l’inizio: due giorni dopo, il 25 novembre, sono già una cinquantina (su 78) le università in sciopero. Migliaia di studenti medi organizzano manifestazioni spontanee a Parigi. Il 27 saranno oltre 500mila in tutte le grandi città francesi.
Il 28 novembre il governo rinvia alla commissione il progetto che stava per essere sottoposto all’Assemblea nazionale. Ma non basta: gli studenti esigono che il progetto venga ritirato, non solamente ridiscusso.
Il 29 novembre il coordinamento degli studenti conferma la manifestazione indetta a Parigi per il 4 dicembre.
È ormai notte sull’esplanade des Invalides. Circa 300mila studenti rimangono ancora in attesa del ritorno delle delegazioni inviate all’Assemblée e al ministère de l’Education nationale.
La risposta genera rabbia e sconforto: il progetto viene confermato.
Dopo qualche improvvisato sit-in e sporadici scontri (sul quai d’Orsay), la polizia fa uso di cannoni ad acqua e lanci di granate (causando molti feriti, alcuni gravi) per disperdere la folla.
Il giorno successivo, 5 dicembre, migliaia di studenti si riuniscono spontaneamente, anche se in maniera alquanto disorganizzata, nel quartiere Latino. Si aspetta, senza farsi illusioni, la dichiarazione di René Monory, ministro dell’Education nationale, prevista per le 20. Per il momento non si registrano «disordini».
Stando ai ricordi dei presenti, la serata, rispetto ai parametri stagionali, era particolarmente douce; le persone passeggiavano, si formavano capannelli informali di discussione, circolava molta cordialità.
Alcuni ragazzi avevano acceso un falò, ma non si vedevano né barricate, né saccheggi. Soltanto alcuni sacchi di sabbia venivano prelevati da un cantiere e messi di traverso, alla buona, in rue Racine. Onde evitare «provocazioni», altri studenti erano prontamente intervenuti per togliere la simbolica «barricata» (alta, pare, non più di 30 centimetri).
Man mano che le ore trascorrono la piazza si va spopolando. Rimangono soltanto trecento manifestanti, in attesa di conoscere i risultati di una assemblea generale «sauvage» in corso alla Sorbonne dove il rettore aveva già richiesto alla polizia di intervenire. Lo sgombero viene pianificato con cura dal prefetto Jean Paolini, dal direttore della Sécuritè publique George Le Corre e dai commissari Jean-Paul Copie e Robert Bonnet.
In campo, otto compagnie di CRS, tre squadroni di gendarmes mobiles e la compagnie de maintien de l’ordre della Prefettura. Una volta sgomberata la Sorbonne, si dovrà «ripulire» rapidamente il quartiere per evitare che gli studenti si riuniscano nuovamente all’esterno.
L’ordine di evacuazione arriva alle ore 1,08. In pratica, circa tre quarti d’ora dopo che è stato ordinato per radio al PVM di intervenire nel quartiere Latino. Questi motociclisti, definiti «unité de choc» e già noti per la loro brutalità, sono addestrati militarmente per intervenire in contesti ben più gravi. Forse le autorità avevano sopravvalutato il numero e la combattività dei manifestanti? Si temeva una riedizione del Maggio ’68 a quasi venti anni di distanza? In ogni caso, la decisione di far intervenire il PVM è stata quantomeno aberrante.
Intanto dalla Sorbonne gli occupanti escono con le braccia alzate e tutto sembra procedere pacificamente. Sembra soltanto. Sarebbe, secondo i testimoni, verso le ore 1 e 30 del mattino che il comportamento della polizia comincia a inasprirsi. Un atteggiamento dovuto forse alla fretta di concludere l’operazione. Il PVM piomba su alcuni manifestanti intenti a rovesciare un bidone della spazzatura in rue Gay-Lussac. L’orda di moto semina il panico, sale anche sui marciapiedi, vengono colpite persone che semplicemente rientravano a casa dal bar o dal ristorante. Alle 1 e 30, l’ala destra del plotone (sette equipaggi), guidata dal brigadier-chef Jean Schmitt risale il boulevard Saint-Michel e imbocca a tutta velocità rue Racine inseguendo una ventina di presunti manifestanti.
È a questo punto che la moto di Schmitt si ribalta, probabilmente per una brusca frenata. Un ragazzo, terrorizzato dalle sirene, dal rombo dei motori, dall’evidente aggressività dei poliziotti sta fuggendo a gambe levate.
Non meno spaventato, a pochi metri sta correndo anche un alto funzionario del ministero delle Finanze, Paul Bayzelon, rientrato da una cena nel momento sbagliato.
Sentendo i motori, Bayzelon ricordava di aver pensato: «non mi picchieranno, sono ben vestito…», ma poi saggiamente aveva cominciato a correre. Dalle moto, i poliziotti colpiscono chiunque capiti a tiro. Il ventitreenne Garcia, alla sua prima missione di PVN, scende dal mezzo guidato dal collega Giorgi e comincia a inseguire a piedi i fuggitivi (contravvenendo al regolamento). Il caso, o il destino, metterà Malik a portata della sua matraque.
Arrivato al numero 20 di rue Monsieur-le-Prince, Paul Bayzelon riesce a entrare nel palazzo dove abita. Dietro di lui, terrorizzato, si getta Malik in cerca di rifugio. Bayzelon, ancora nella hall del palazzo, ne intravede il volto incollato all’esterno della porta a vetri. Dirà di essere rimasto colpito dagli occhi pieni di terrore. Gli apre e anche Malik si rifugia nella hall.
Al momento di richiudere la porta, due (o forse tre) poliziotti, tra cui Garcia e Schmitt (e forse anche Christian Giorgi, la dinamica non è mai stata completamente chiarita), entrano di forza e si precipitano su Malik massacrandolo a colpi di manganello. Lo colpiscono soprattutto alla testa e contemporaneamente lo prendono a calci nel ventre e sulla schiena. Bayzelon testimonierà che all’entrata dei poliziotti Malik aveva gridato: «Je n’ai rien fait… Je n’ai rien fait…». Poi più niente, solo i grugniti dei picchiatori e i colpi sordi delle manganellate. I poliziotti escono, ma rientreranno subito, pestando anche Bayzelon, in quanto Schmitt aveva perso la sua pistola. Malik è in un mare di sangue. Verrà soccorso, comunque troppo tardi, solo casualmente. Un’ambulanza del SAMU passa per rue Racine e viene fermata da alcuni passanti. Dopo alcuni tentativi di rianimarlo, il medico si rende conto che per il giovane ormai non c’è più speranza. Finge ugualmente un ricovero d’urgenza, forse per evitare possibili disordini data che una piccola folla si va ammassando davanti al civico 20 di rue Monsieur-le-Prince. Il resto è la triste cronaca di una famiglia sconvolta dalla notizia: Malik è morto. Ammazzato di botte dalla polizia.
Ma chi era Malik Oussekine?
Nato il 18 ottobre 1964, era figlio di un camionista (in precedenza minatore e muratore) di origine algerina morto nel 1978. La famiglia abitava in un HLM (casa popolare) a Meudon-la Foret. Colpito fin dalla nascita da una malattia dei reni, aveva trascorso buona parte dell’infanzia tra ricoveri ospedalieri, cure, controlli e trattamenti.
Stando alle testimonianza raccolte da Nathalie Prévost, all’epoca studentessa dell’école de journalisme e amica della sorella, Malik era un ragazzo educato e gentile che non parlava mai dei suoi problemi di salute. Così lo ricordava il preside della sua scuola dove si distinse per discrezione e impegno. E comunque sempre «ansioso di vivere» incoraggiato in questo dai fratelli maggiori. Gioca a tennis, nuota, si iscrive a un corso di karaté, si allena a basket in un club. Sogna di diventare musicista, ama soul e funk. Con l’adolescenza i suoi problemi di salute si aggravano. Dal 1986 deve sottoporsi a dialisi e un fratello inizia le pratiche per donargli un rene. Malik rimane comunque un ragazzo intraprendente che ripone molte speranze nel futuro («il est confiant dans son avvenir»). Per un anno rimane in cura presso un centro di Avon dove può continuare i suoi studi tra un trattamento e l’altro. Quando il fratello Ben Ammar lo porta a vivere vicino a lui, nel XVII, Malik si iscrive all’ESPI, una scuola di economia.
«Assiduo, puntuale, attento alle lezioni…» lo ricordano i professori. Forse un po’ solo, geloso della sua indipendenza e sempre molto reticente sulla malattia. Grazie all’aiuto dei familiari (i fratelli sono piccoli imprenditori), ha la possibilità di compiere qualche breve viaggio in Italia, Spagna e Gran Bretagna. Poi, nel settembre 1986, negli Stati Uniti presso la famiglia di un medico dove può essere seguito.
Ritorna a Parigi colmo di entusiasmo. Sicuramente molto idéaliste, non è però impegnato politicamente. Si sente francese e solo per pochi mesi frequenta l’Amicale des Algèriens en Europe e più tardi la Fusion (più che altro per curiosità secondo il fratello). Da sempre interessato alle questioni religiose, avrebbe preso in seria considerazione l’ipotesi di diventare cattolico e forse anche di farsi prete. In tasca, quando viene massacrato, aveva una copia del Nuovo Testamento. Pochi giorni prima aveva voluto incontrare due sacerdoti, P. Baudin e P. Desjobert che lo ricordano come «molto determinato, anche se forse un po’ impaziente».
Sicuramente, dicono «Malik è stato colto dalla morte in un momento in cui stava compiendo scelte profonde». Scelte che due o tre poliziotti hanno stroncato sul nascere, à coups de matraque, una sera di dicembre 1986.
Oggi Malik Oussekine avrebbe 57 anni.
(Gianni Sartori)