Oggi la memoria sociale della barbarie e delle lotte che l’hanno combattuta non è affatto una questione secondaria. A dimostrarlo basterebbe anche solo il fatto che gli Stati abbiano cercato in ogni modo di addomesticarla o di cancellarla. Proprio per questo la nostra memoria è fatta di frammenti interrotti e acuminati o – come diceva Walter Benjamin – è «un ricordo che balena nell’istante del pericolo». E il pericolo, oggi, è straordinariamente grande. Riceviamo e per questo pubblichiamo un frammento di memoria storica di un tempo insieme lontano e vicino.
CORREVA L’ANNO 1970… (Eride e i suoi fratelli)
di Gianni Sartori
Era una nebbiosissima serata di novembre. L’anno il 1970. Dopo la riunione, avevo accompagnato Tiziano Zanella verso casa. Progetti, speranze, dubbi che si affacciavano alla mente di due diciottenni già schierati politicamente e poco disposti a pazientare. A dire il vero, anche se sarebbe stata più in sintonia, la riunione non era per organizzare manifestazioni o picchetti, ma una spedizione alla grotta denominata «Buso della Rana», all’epoca ancora la più lunga d’Italia (tra quelle conosciute, ovviamente). Presumo quindi fosse venerdì, serata canonica per gli incontri del Club Speleologico Proteo. Lo stradone dello stadio affogava nella densa nebbia che fuoriusciva dal fiume Bacchiglione. A mala pena si distingueva un alone lattiginoso attorno ai lampioni. I tigli siberiani sull’argine, ombre nere che si perdevano verso l’alto. Impossibile distinguere il ponte della ferrovia e, sull’altra riva, il piccolo monumento ai «Dieci martiri». Tra i giovani resistenti fucilati per rappresaglia dai fascisti sulla striscia di terra che separa il Bacchiglione dal Retrone, anche quattro partigiani sinti prelevati dal carcere di Padova.
Improvviso un rumore di passi nelle tenebre, forse una voce. Un’immagine che ricorderò per sempre. Cinque figure allineate, di corsa, che si tenevano per mano occupando quasi l’intera carreggiata. Nessuno restava indietro. Sull’argine, per un attimo, due sagome evanescenti subito dissolte. Le persone in realtà erano sei. Una madre con i suoi figli. Il più piccolo, avvolto in uno scialle, appeso al collo.
La donna, una «singana» nel linguaggio politicamente scorretto di quando non si sapeva di sinti e di rom, raccontò di essersi accampata nello spiazzo lungo la ferrovia, vicino al vecchio Foro boario, uno dei luoghi dove periodicamente si fermavano carovane in transito.
Ci spiegò che due individui (le ombre intraviste sull’argine) avevano tentato di entrare con chiare intenzioni. Preoccupata soprattutto per la figlia quattordicenne, era immediatamente fuggita portandosi appresso tutta la famiglia. Raccontò di essere stata recentemente abbandonata dal marito che se ne era andato con la loro roulotte e di vivere in una tenda, dono di un medico benefattore. Fino a qualche giorno prima il campo aveva ospitato alcune carovane. Ma poi erano partite per Milano e loro erano rimasti soli, in attesa che qualcuno li aiutasse a trasferirsi dall’altra parte della città. A Sant’Agostino, dove agli inizi degli anni settanta stazionavano sempre piccoli gruppi di nomadi.
La donna, nonostante la situazione, dimostrava un forte carattere e non voleva assolutamente ritornarsene nella tenda. I loschi individui avrebbero potuto ritornare. Che fare? Alla fine, dopo aver ampiamente dibattuto, pensammo di risolvere la situazione ospitando provvisoriamente la famiglia in una qualche sede di quelle che frequentavamo abitualmente. Una telefonata per strappare al sonno un dirigente politico, discussione animata (per certi ideologi operaisti ortodossi gli «zingari» erano lumpenproletariat di cui diffidare) e alla fine consegna delle chiavi. Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare presenti a Vicenza erano allora una mezza dozzina. Per quella notte trovammo ospitalità a «Potere Operaio», nella vecchia sede di S. Caterina, la prima (la seconda fu a porta Santa Lucia, sopra il busto in memoria del partigiano trucidato Apolloni). Mettemmo a disposizione la sala delle riunioni (dove troneggiavano due manifesti di Marx e Lenin: «ma quello chi è, tuo nonno?»). Dormirono avvolti nelle coperte che, prudentemente, si erano portate via prima di scappare, mentre noi restammo a far la guardia tra il corridoio e il ciclostile. Un paio di notti freddissime, nonostante l’eskimo. Nei giorni successivi ci occupammo del trasloco, effettuato con uno di quei carretti a pedali che circolavano ancora in città. Per circa un anno frequentai il campo dove si erano stabiliti contribuendo con collette e doni in viveri. Determinante, sia per umanità che per doti organizzative, il ruolo del futuro dott. Dino Sgarabotto che successivamente avrebbe confermato la sua tempra umanitaria in Kenya con il CUAM.
Da parte mia, mi dedicai all’insegnamento di lettura e scrittura, in quanto «maestro elementare diplomato». Un anno o due dopo avrei anche vinto il concorso, ma rifiutai il posto quando scoprii che avrei dovuto «giurare» (alla Stato delle stragi? Mai!) e continuai a scaricare camion.*
La madre dei bambini raccontava di essere sfuggita, in tenera età, allo sterminio della sua famiglia. Un giorno dei funzionari erano venuti a cercarli in una località «vicino a Trieste» (poteva trattarsi anche dell’Istria) per portarli a «fare gli esami del sangue» e nessuno di loro fece più ritorno. In quel momento lei era in giro, a giocare, e una sua cugina (che evidentemente aveva mangiato la foglia) si offrì di restare ad aspettarla per poi recarsi in «ambulatorio». Appena la bimba fu tornata, la cugina l’afferrò e cominciò a correre, a scappare lontano. Una vicenda che fatalmente, ripensandoci ora, mi riporta alla mente quella di Sara Gesses (che nel suo viaggio verso la morte transitò per Trieste, a San Sabba) ma con un finale completamente diverso.
Davo per scontato che la famiglia fosse stata distrutta per mano dei nazifascisti, ma poi qualcuno (forse un «revisionista»?) suggerì che avrebbero potuto trovarsi anche tra le vittime delle foibe. Molti di loro infatti erano classificati come «profughi giuliani». Lo scoprii quando, in occasione delle elezioni, venivano nel campo per comprarsi qualche voto gli esponenti di un partito ben noto (MSI), ma non certo per il suo antirazzismo. Missini senza scrupoli che al danno aggiungevano anche le beffe. La conferma che era stata opera dei nazifascisti (in una data imprecisata, ma comunque dopo l’8 settembre 1943) la ebbi quando mi recai, su loro richiesta, al Comune di Trieste (andata in treno, ritorno in autostop) per ritirare alcuni documenti. Dalle carte si intuiva che la prima tappa del viaggio verso la desolazione e la morte era stata a San Sabba, la «risiera».
Quando li conobbi, nessuno dei cinque figli frequentava la scuola anche se tre di loro ne avevano l’età. Sette, otto e quattordici anni. Cominciai quindi, come ho detto, a «dar lezione». All’aperto, anche d’inverno. Talvolta con il terreno ricoperto di neve. Avevamo trovato una stanza, messa a disposizione da una signora di buon cuore, ma loro preferivano così. La cosa avveniva in maniera del tutto «spontaneista» (oltre che, presumibilmente, un po’ velleitaria) dato che diffidavo delle varie associazioni impegnate all’epoca a «riadattare i nomadi» (come da statuto). Qualche problema anche con quei compagni che si occupavano esclusivamente di «classe operaia» dura e pura. Anche se poi, diversamente da chi scrive, a far l’obrero nessuno di loro c’è mai andato. In compenso qualcuno (ricordo un dirigente locale di Potop) avrebbe visto volentieri gli zingari alla catena, anche se solo di montaggio**. Da parte mia (dato che la Rivoluzione sembrava ormai dietro l’angolo) ritenevo fosse giusto «non lasciare indietro nessuno». Talvolta succede, da giovani, di volare alto. Malattia infantile da cui si può comunque guarire.
«Studente» e, magari saltuariamente, «lavoratore», trascorrevo parecchie notti da «Domenichelli» a scaricare e «stivare» camion (ma all’epoca frequentai a lungo anche i magazzini di Meoni, la «Veneta-piombo» di Alte Ceccato, i frigoriferi della Ederle e l’Olimpico-traslochi). Di solito mi recavo al campo nel pomeriggio, prima di iniziare il turno. Altre volte di mattina, quando staccavo. Ovviamente non tutti i giorni, sicuramente molto meno di quanto sarebbe stato necessario. Ma con l’aiuto di alcune amiche del «Fogazzaro» (ricordo in particolare due compagne, Rosanna Rossi e Chiara Stella) qualcosina riuscimmo a insegnare. Anche perché i bambini erano svegli, soprattutto Eride, la più grande. Ne avemmo conferma un paio d’anni dopo che se ne erano andati, a Milano. Sul «Corriere della sera» venne pubblicata una sua lettera bellissima (forse un po’ strappalacrime, ma a fin di bene) che suscitò un’ondata di solidarietà nei confronti della sfortunata famigliola.
In seguito, partiti i miei amici «zingari» per Milano, non ricordo di averne frequentati altri per parecchi anni, almeno in Italia. Invece all’estero non mancarono occasioni di confronto e talvolta anche di quasi «scontro», come quando in Bosnia venni inseguito per essermi avvicinato a un accampamento con macchina fotografica (per la cronaca: salvato dall’intervento umanitario di una donna). Ricordo, in Guipuzkoa, un militante del movimento antinucleare Eguzki che rivendicava di essere «un basco di origini gitane» e i Tinkers accampati tra il Bogside e il Craigavon Bridge, a Derry, in Irlanda del Nord (in realtà i Tinkers avrebbero scelto il nomadismo in epoca relativamente recente, per imitazione).
Nel 1987 proposi ad un settimanale locale di «area progressista» alcuni articoli sui campi nomadi del vicentino, via Cricoli in particolare. Visitai, venni invitato a pranzo, partecipai a qualche battesimo, matrimonio e funerale e scattai molte fotografie su richiesta. In una di queste, tempo dopo, riconobbi Paolo Floriani, un ragazzino destinato a morire tragicamente nel 1987 a causa di un inseguimento impietoso da parte della polizia. La sua corsa finì a Debba nel fiume Bacchiglione, in novembre, dopo aver salvato la vita dell’amico Davide che stava per annegare.
Come potei documentare, mentre i due sinti fuggivano in motorino per i campi (il giorno dopo restavano ancora i segni delle ruote sull’erba di un vigneto e ne conservo le foto), la polizia aveva sparato, forse in aria o forse no. Dal punto dove si era buttato in acqua a quello in cui era annegato c’era una distanza di oltre cento metri. Braccato da una riva all’altra, aveva attraversato il fiume quattro volte prima di affogare. Partecipai ai funerali di Paolo e il mio articolo, in cui lo definivo «vittima di razzismo istituzionalizzato, di Stato», NON venne mai pubblicato dal solito settimanale «progressista» (per non aver rogne con le autorità, mi spiegarono). Diventò un volantino di denuncia, firmato dalla sez. di Vicenza della «Lega per i diritti e le liberazione dei popoli» e per quel testo rischiai una querela.**
Ma questa è un’altra storia.
Gianni Sartori
*nota 1: per la cronaca, l’obbligo di giuramento venne tolto soltanto all’inizio degli anni ottanta, grazie alla battaglia condotta con dedizione ammirevole da un insegnante bolognese (anarchico, combinazione), anche con lunghi scioperi della fame (durante l’ultimo, lunghissimo, andò a visitarlo anche Zangheri) per protestare contro la norma iniqua. Personalmente andai a insegnare soltanto nella seconda metà degli anni ottanta, senza giurare ovviamente. Un conto è vendere la propria forza lavoro, un altro dannarsi l’anima.
**nota 2: solidarietà, invece, dai compagni del M.A.V. (Movimento anarchico vicentino) Ricordo Claudio Muraro, Rino Refosco, i fratelli Anna ed Enrico Za, Laura Fornezza, Stefano Crestanello, Guido Bertacco, Alberto Pento, Gianni Cadorin… che nello stesso periodo difendevano la dignità di altri «marginali», i reclusi dell’ospedale psichiatrico. Con il sostegno del compianto Sergio Caneva, medico e partigiano.
***nota 3: L’autore di un discutibile articolo sulla morte di Paolo, un ex di Lotta Continua (e forse, se non ricordo male, transitato poi per qualche mese anche tra gli anarchici) non aveva gradito di essere stato definito «ipocrita» nel volantino.