A QUATTRO ANNI DALLA SCOMPARSA, UN RICORDO DI GIUSEPPE SARTORI, PARTIGIANO E CUSTODE DELLA MEMORIA
di Gianni Sartori
Ormai da quattro anni il partigiano Giuseppe Sartori (“Beppino”, una lontana parentela con chi scrive) non è più presente alla tradizionale cerimonia di Pederiva di Grancona in memoria delle sette giovani vittime brutalmente assassinate dai fascisti (presumibilmente legati alla famigerata “Banda Carità”) nella “sera del Corpus Domini” (8 giugno 1944).
Purtroppo il “custode del ricordo dei Sette Martiri” era morto nei primi mesi del 2014 e con la sua scomparsa se ne andava anche uno dei maggiori depositari della memoria storica della Resistenza sui Colli Berici.
L’ultima volta lo avevo incontrato (una domenica 28 maggio di qualche anno fa) quando oltre 300 persone avevano sfilato per le vie del paese fino al luogo dell’eccidio. Era presente anche una folta delegazione toscana proveniente da Prato. Città simbolo della Resistenza, Prato aveva dedicato una via ai Sette Martiri di Grancona e quel giorno era stata ricambiata. Prima del corteo i rispettivi sindaci avevano infatti inaugurato una nuova via “Città di Prato”, di fronte alla locale sezione degli Alpini che avevano contribuito alla buona riuscita dell’iniziativa. Nel corteo, tra i labari dei Comuni e i tricolori, si notava anche qualche bandiera arcobaleno della Pace e la storica bandiera rossa con falce e martello portata dal compagno Arnaldo Cestaro di Agugliaro (noto come la vittima più anziana del massacro della Diaz nel 2001 a Genova). In prima fila, come ad ogni ricorrenza, c’era appunto Giuseppe Sartori, fratello di Ermenegildo, uno dei sette giovani assassinati nel 1944. Dal dopoguerra fino alla fine dei suoi giorni “Beppino”, classe 1925, si era prodigato con grande dignità per mantenere vivo il ricordo di questi avvenimenti, insieme ai valori della Resistenza. Promotore di decine di iniziative pubbliche, aveva istituito varie sezioni dell’Anpi. Nel 1996, insieme all’Anpi di Grancona, aveva pubblicato il libro “La sera del Corpus Domini – memorie sull’eccidio dei Sette Martiri” e in seguito realizzato un video in collaborazione con insegnanti e studenti delle scuole medie. Lungo il percorso della manifestazione, ormai lontana nel tempo inesorabile, numerosi cartelli ricordavano il sacrificio dei “Combattenti per la Libertà” contro il nazifascismo. Molto suggestiva la cerimonia davanti al monumento dove erano state deposte alcune corone. Da ognuno dei maestosi cipressi pendeva un lungo striscione con il volto dei sette martiri: Raffaele Bertesina, Silvio Bertoldo, Attilio Mattiello, Guerrino Rossi, Ermenegildo Sartori, Mario Spoladore, Ernesto Zanellato. Il corteo si era poi avviato verso la chiesetta (il luogo dell’eccidio, poi sconsacrata) sfilacciandosi lungo una stradina, in mezzo al grano ancora verde, con le colline sullo sfondo. Dopo la messa al campo e i canti del Coro Val Liona (“Bella ciao”, “Signore delle cime”…), Giuseppe Pupillo (a modo suo un altro “reduce”, ma di Valle Giulia 1968) aveva tenuto il discorso ufficiale, sottolineando come la Resistenza abbia rappresentato il riscatto dell’Italia di fronte alla comunità internazionale dopo gli anni di complicità con la Germania nazista. Quel giorno a Giuseppe Sartori avevo chiesto di rievocare brevemente i fatti del tragico 8 giugno 1944. Dopo un primo incontro con sedicenti partigiani dell’Altopiano di Asiago (in realtà fascisti che cercavano di eliminare sul nascere la Resistenza nei Colli Berici) si era concordato che “un gruppo di giovani della Val Liona avrebbe dovuto raggiungere i monti per integrarsi nella Resistenza dell’Alto Vicentino”. L’incontro stabilito era “per le ore 21 dell’8 giugno presso la Chiesetta di S. Antonio delle Acque”. Anche “Beppino” avrebbe dovuto partecipare ma il fratello Ermenegildo lo “scongiurò di restare con i genitori perché altri due fratelli erano al momento prigionieri, uno in Africa e uno in Germania”.* In realtà “l’appuntamento era una trappola”.
I sette giovani, che erano disarmati, vennero “prima torturati e poi assassinati”. Sul corpo del fratello contò “almeno 27 fori di proiettile”. In base alla testimonianza di Silvio Bertoldo (l’unico ad essere ritrovato ancora vivo e poi spirato all’ospedale di Montecchio Maggiore) si è potuto stabilire che “i sette giovani vennero legati fra loro con del filo di ferro” e che “le torture durarono quasi due ore”. Poi “vennero trascinati giù nella strada principale, allineati sotto il muro della rampa di carico del laboratorio di pietre dei fratelli Peotta e finiti con scariche di mitra”. Sartori ricordava di aver sentito “alle ore 22 e 55 del mio orologio, la sparatoria di quella esecuzione” mentre insieme ad Antonio Giacon si stava avvicinando alla chiesetta, preoccupato perché nel frattempo in paese “era corsa voce che l’appuntamento fosse in realtà un inganno”. La storia registra un ultimo atto di pietà quando “tra le quattro e le cinque del mattino passò sul luogo dell’esecuzione un carrettiere che diede un sorso di vino a uno ancora in vita che chiedeva da bere”. Subito dopo spirò e il carrettiere “fuggì terrorizzato da quel luogo di morte”.
Lo scempio dei corpi martoriati che si presentò ai primi abitanti della zona era indescrivibile. Tanto che in seguito la chiesa stessa venne sconsacrata per la gravità dell’evento. Alcuni storici ritengono che nella barbara esecuzione dei sette giovani avesse avuto un ruolo la famigerata banda Carità, al diretto servizio dei tedeschi e attiva , dopo la fuga da Firenze, sia a Padova (a “Villa Triste”) che nel Vicentino.
Gianni Sartori
*n.d.a. il fratello Olimpio deportato in Germania morì durante la prigionia.