Riceviamo e diffondiamo una riflessione che arriva dal collettivo Antifa Macerata: un’analisi su quanto successo a Macerata in queste ultime settimane e un contributo sulla situazione e le prospettive di un nuovo antifascismo.
Si riparte da Macerata!
Ma per andare dove?
Note sulla frammentazione dell’antifascismo istituzionale e la ricostruzione di un nuovo antifascismo
Partiamo da un punto base. Gli eventi di Macerata nelle scorse due settimane non sono stati pure casualità né, tantomeno, imprevedibili atti di follia. Sono l’espressione della crescente, putrida marea da cui riemerge il neo-fascismo. Questa marea ha origine nell’abbandono istituzionale, nella repressione sociale e nell’assistenzialismo de-umanizzante e produce un conflitto tra poveri. Incoraggiato dai media come dalle forze parlamentari, questo conflitto ci spinge a farci a pezzi tra di noi per qualche briciola. Il fetore della marea si sta espandendo in tutta Europa ma, abbiamo imparato nostro malgrado, trova le sue espressioni più pungenti nelle provincie insospettabili: in territori apparentemente pacificati, nelle chiese brulicanti, nell’associazionismo democristiano, in gruppi Facebook apparentemente innocui e campanilistici e nei bacini elettorali che si definiscono «di sinistra». Eppure, il 10 Febbraio ci suggerisce che è proprio da queste stesse province che dobbiamo ripartire perché territori dove le relazioni umane sono più fitte, l’opinione pubblica più facilmente influenzabile, le assemblee popolari più visibili e le forze in campo, incluse quelle statali, meno strutturate. Qui l’antifascismo militante si fa anche semplicemente stando in strada, andando a lavoro o sedendo al bar e gli scazzi si gestiscono, volenti o nolenti, davanti a quello stesso bancone.
Questa considerazione, seppur radicata in un contesto di provincia, ha origine nelle riflessioni condivise con tutte quelle realtà urbane che negli anni hanno portato avanti la lotta con costanza e senza le quali il corteo del 10 febbraio non sarebbe stato possibile. Nelle scorse due settimane, a Macerata, ci siamo trovati a gestire una situazione che sembrava essere fuori dalla nostra portata — di Noi Antifa Maceratesi come di tutti collettivi e le realtà territoriali con cui abbiamo collaborato — e l’unico modo per affrontarla è stato quello di assumere un atteggiamento di irremovibile umiltà. Irremovibile perché non abbiamo voluto cedere di un passo e abbiamo messo i nostri corpi in campo di fronte alle minacce di Minniti o ai tentativi di gruppi neo-fascisti di trovare spazi d’azione nel nostro territorio. E al contempo di umiltà perché siamo tornati a collaborare con realtà territoriali con cui, lo ammettiamo, non dialogavamo da anni, accettando che queste fossero in grado o disposte a percorrere strade che noi, per nostra indole, non ci sentiamo di intraprendere.
Come abbiamo detto dopo il 10 febbraio – e le piazze di Piacenza, Bologna, Venezia, Napoli, Torino, e Palermo hanno dimostrato, e molte altre continueranno a dimostrare – SI RIPARTE DA MACERATA!
Ma ora l’euforia del corteo è passata e l’energia va trasformata in lavoro quotidiano. Le domande sono molteplici. Con la stessa irremovibile umiltà vogliamo provare ad offrire delle risposte a partire dalla nostra esperienza. La nostra speranza è che queste risposte possano risuonare in altri territori e stimolare azioni dirette, le cui declinazioni siano di volta in volta radicate nel sentire e nel metodo di ognuno.
CON CHI RIPARTIAMO?
Gli eventi di Macerata, con il preambolo del corteo antifascista a Genova e le successive mobilitazioni a Piacenza, Bologna, Venezia, e Napoli, hanno messo fine alla farsa dell’antifascismo istituzionale italiano, sia nelle sue forme organizzative verticiste e centralizzate (ANPI, ARCI, CGIL e LIBERA), che in quelle più propriamente rappresentative (partiti politici parlamentari e istituzioni locali). Il quadro si fa mano a mano sempre più chiaro. Il ministro Minniti, a parole antifascista, non solo ha lasciato spazio alle organizzazioni neo-fasciste che hanno rivendicato la tentata strage di Macerata ma le ha protette dai cortei antifascisti con manganelli, cannoni d’acqua e lacrimogeni. Le istituzioni locali, in un territorio con una forte storia di Resistenza come il nostro, hanno risposto creando un clima di paura e tensione nei confronti del corteo antifascista e non verso chi ha rivendicato l’attentato.
Non pago, di fronte al presunto arrivo dei «vandali», il Sindaco Romano Carancini ha chiuso le scuole, incoraggiato la cittadinanza a barricarsi in casa e invitato i commercianti a nascondersi dietro pannelli di compensato e persiane chiuse. Da parte loro, i politicanti delle segreterie nazionali di Anpi, Arci, CGIL e Libera hanno messo in campo una goffa manovra politica finendo esclusivamente per spezzare le loro organizzazioni. In un primo momento, hanno cercato di appropriarsi della massa di gente che si sarebbe riversata su Macerata. Fallita questa mossa, si sono svincolati dall’organizzazione per lasciarci in pasto ad una potenziale mattanza. Infine, di fronte alla defezione di tante delle loro sezioni locali, hanno tentato di risalire sul carro dei vincitori a corteo compiuto.
Crediamo che la frammentazione dell’antifascismo istituzionale avvenuta a Macerata altro non sia che la logica conclusione di una contraddizione sempre esistita al loro interno e finalmente aperta: quella tra l’autonomia locale e le logiche da mercante in fiera con cui le loro sedi centrali si spartiscono favori politici, poltrone e finanziamenti. Questa contraddizione è stata forse più evidente negli scorsi decenni in seno ai sindacati confederati (CGIL,CISL e UIL). Seppure nelle realtà territoriali alcuni membri partecipassero attivamente alle lotte dei lavoratori, le segreterie hanno non solo permesso, ma attivamente partecipato allo smantellamento dei diritti del lavoro, alla precarizzazione delle nostre vite, all’allungamento dell’età pensionabile e – proprio in questi giorni attraverso lo sfruttamento del margine interpretativo della L.146/90 – alla limitazione sistematica del diritto di sciopero.
Questa contraddizione non si ferma ai sindacati ma percorre tutto l’ecosistema dell’antifascismo istituzionale. È evidente nella codardia delle segreterie nazionali di Anpi e Arci di fronte alla mobilitazione antifascista del 10 febbraio che tuttavia ha trovato una risposta coraggiosa in alcune sezioni locali (ma non quella di Macerata) che hanno rifiutato, non senza logoramento, il diktat delle autorità centrali. È evidente nel sistema dell’accoglienza, fatto di lavoratori, spesso in condizioni contrattuali precarie ma coinvolti in movimenti antirazzisti territoriali, che si scontrano con l’approccio assistenzialista portato avanti dalle proprie organizzazioni, fatto di appalti milionari e programmi che infantilizzano i migranti, alimentano il conflitto tra poveri e generano profitti attraverso la creazione di forme di dipendenza impedendo ogni possibilità di emancipazione e autodeterminazione. Ed è evidente persino nei più ampi spazi delle forze parlamentari cosiddette di «sinistra», il PD in particolare, oramai tenuto a galla solo grazie alla deriva della logica del «votare il male minore» ma palesemente percorso da un totale scollamento dalla sua base elettorale. La risultante frammentazione potrebbe sembrare un fattore di indebolimento per le nostre forze, eppure – come hanno dimostrato le larghe presenze in piazza nelle scorse tre settimane – pensiamo che questi eventi fossero necessari a dissolvere le ipocrisie e a chiarire chi sono gli antifascisti oggi.
In breve, crediamo che su questo fronte oggi esistano solo due aree politiche: chi risponde con forza alla responsabilità che la storia ci invita a prendere e chi, nascondendo la testa sotto la sabbia, quella stessa responsabilità la rifiuta. Ciò non significa che al nostro interno rinneghiamo le differenti tradizioni politiche, modalità organizzative e pratiche di piazza e di quartiere. Significa piuttosto che, come la Resistenza ci ha insegnato, di fronte a momenti storici come quello che stiamo vivendo ora si può lottare solo nella certezza che chi ti sta accanto proteggerà il tuo fianco. A Macerata abbiamo capito chi, pur con metodi diversi, quel fianco lo tiene e chi, invece, fregiandosi di rappresentare la memoria dei partigiani, si abbandona alle proprie tendenze autoritarie, si lascia imbrigliare dai propri vertici o sconfiggere della propria codardia e ignavia. I primi sono i nostri compagni di viaggio, i secondi fanno parte delle forze a noi nemiche.
CHI SONO I NOSTRI NEMICI?
La prima risposta a questa domanda viene da sé: le forze neo-fasciste che agiscono sui nostri territori, CasaPound, Forza Nuova e la Lega Nord in primis. A queste aggiungiamo chi ha supportato, permesso e lasciato spazio alle loro azioni e attività territoriali, a partire da intere sezioni del PD che per anni hanno tutelato queste organizzazioni. Ciò nonostante, in relazione agli eventi delle scorse settimane sia nel nostro territorio che in altri, queste risposte non ci sembrano sufficienti a descrivere la portata della marea neo-fascista che dobbiamo respingere. Specialmente a Macerata abbiamo visto gli effetti chiari del radicamento di una «cultura neo-fascista» che ci ha lasciato, francamente, spiazzati e impreparati a gestire la sistematica alterazione della realtà che questa «cultura» porta avanti, perpetrata dall’universo mediatico e dalle parole di politici locali e nazionali.
L’indegno omicidio di una donna presuntamente compiuto da alcune persone di origine nigeriana è stato trasformato in un atto sintomatico degli effetti di un’immigrazione incontrollata e farcito dal macabro tentativo mediatico di collegarlo a pratiche tribali o a fantomatiche reti mafiose nigeriane. Una tentata strage di matrice fascista – resa innegabile nelle sue origini politiche dalla bandiera italiana avvolta intorno al collo di Luca Traini, dal saluto romano messo in scena da lui davanti ad un monumento fascista, dal Mein Kampf sul sedile della sua macchina, dal visibilissimo tatuaggio di terza posizione sopra il suo sopracciglio destro e dalla rivendicazione della legittimità delle sue azioni da parte di Forza Nuova – è stata rappresentata per le prime ore come un regolamento di conti tra nigeriani e poi, una volta appurata l’identità del carnefice, come l’effetto della frustrazione di uno squilibrato, giustificandone di fatto le ragioni ma condannandone i modi e riducendolo ad un atto di follia. Le vittime di questa tentata strage, Gideon, Festus, Jennifer, Mahmadou, Wilson, Omar, differentemente da quanto successo in altri attentati, sono state cancellate e ridotte alla categoria informe e de-umanizzante di immigrati di colore, senza nome, senza volto e senza storia. Un corteo pacifico, multicolore, composito, e unito – che ha portato 30,000 persone nella nostra città – è stato descritto per giorni come una pericolosa riunione di fanatici e facinorosi, equiparato alla violenza dell’attacco fascista, minacciato con mezzi para-legali, colpito da attacchi mediatici e infine, senza altro a cui ricorrere, ridotto a un presunto coro sulle Foibe.
Di fronte a questa sistematica distorsione della realtà, abbiamo compreso che i nostri nemici sono e devono essere tutti coloro che collaborano alla produzione e circolazione di quella «cultura neofascista» su cui atti come la tentata strage di Macerata si radicano. Questo significa:
1) Il gruppetto sparuto di fanatici a braccio alzato – pericolosi senza dubbio ma pur sempre insignificanti nella loro pochezza politica nonché umana – e chi lascia loro spazio per convenienza politica, codardia o ignoranza.
2) Le sezioni dei media tradizionali (nel nostro territorio in particolare il Resto del Carlino e il Corriere Adriatico), le nuove pagine giornalistiche che sono emerse negli ultimi anni a livello locale (nel caso di Macerata, Cronache Maceratesi e Picchio News) e gli amministratori di gruppi di discussione sui social network (l’esempio locale è «Sei di Macerata Se…»). Questi soggetti, per un po’ di visibilità, qualche click e i profitti di sponsorizzazione che ne derivano, si appellano agli istinti più subdoli della natura umana, speculano sulla paura del diverso, l’odio e l’intolleranza, e si fanno promotori e diffusori della cultura neo-fascista che di questi sentimenti si nutre.
3) Chi per interessi politici ed economici ricorre alla stessa strategia messa in campo dal fascismo storico negli anni ’30: l’utilizzo della crisi economica per fomentare una «guerra tra poveri» che mette lavoratori e disoccupati bianchi contro lavoratori e disoccupati di altre etnie, giovani contro anziani, uomini contro donne. E così facendo adotta la tecnica tipica di ogni autoritarismo – il divide et impera – per annientare il pericolo che forme di organizzazione collettive e autonome possono portare al loro fragile potere.
IN QUALE DIREZIONE VOGLIAMO RIPARTIRE?
Fatta un po’ di chiarezza su chi siamo Noi antifascisti oggi e chi i nostri avversari, sentiamo il bisogno di un momento di autocritica. Gli eventi avvenuti a Macerata così come in altre città ci hanno risvegliato da un torpore in cui noi stessi ci siamo lasciati cadere, credendo che il nostro antifascismo si potesse limitare solamente ai nemici più dichiaratamente esposti e lasciando gli altri agire più o meno impunemente. In questo senso, va riconosciuto il ruolo che separazione, isolamento e velleità identitarie, così come la mancanza di una riflessione più estesa e sostenuta sulla «cultura neo-fascista» e i suoi promotori, hanno avuto nel permettere l’espansione di questa cultura nei nostri territori. In particolare i suoi promotori, libera di agire indisturbati, hanno alimentato quel clima di intolleranza, ignoranza e suprematismo che stanno dietro a ogni attacco fascista cosi come alla sua normalizzazione politica e mediatica. Le ultime settimane ci hanno insegnato una lezione: il fascismo si combatte sia con il corpo che con la mente, uniti, e attraverso pratiche quotidiane e territoriali di lotta, attraverso il lavoro per strada, nelle piazze, nei posti di lavoro, sui fogli di giornale e persino sui territori immateriali dei social. Questo significa, a nostro parere, arginare i gruppi neofascisti con i nostri corpi. Ma significa anche, e su questo abbiamo ancora molta strada da fare, respingere l’espansione agghiacciante cultura neo-fascista‖ che si nutre di de-umanizzazione del «diverso», di suprematismo e conflitto tra poveri. Per ottenere questo dobbiamo riuscire a creare alternative territoriali a questa narrazione della realtà che ci viene imposta, spazi autonomi in cui renderle operative e forme organizzative che rispondano a queste esigenze. Con questi obiettivi in mente riusciamo a vedere tre grandi spazi di azione antifascista, ognuno necessario e forse ognuno adattabile ad una varietà di approcci, metodi, e obiettivi che possono contenere tutta la diversità che l’antifascismo militante ha e deve continuare ad avere al suo interno.
1) Antifascismo di arginamento
Questo è il campo d’azione votato alla sottrazione di ogni spazio d’azione alle forze neo-fasciste. Immaginiamo che questo assuma le forme che ognuno di noi reputa più consone. Dalla chiusura e il sabotaggio dalle loro sedi, all’occupazione popolare degli spazi pubblici in cui tenteranno di inscenare i loro eventi, dal bloccaggio e boicottaggio degli spazi commerciali che offriranno sale, alla sottrazione di ogni legittimità giuridica alle loro organizzazioni, dall’impedire l’apertura di nuove filiali al rendere innocui i loro referenti locali. Dobbiamo bloccare la strategia del fascismo contemporaneo che mira a inquinare spazi fisici e non, complice il permissivismo di istituzioni e media. Non saranno le nostre bandiere, i nostri proclami o le nostre idee ad impedire tutto ciò: ma i nostri corpi. Non crediamo che la violenza sia la prima né la privilegiata modalità di risposta alla cultura neo-fascista e a chi la produce ma crediamo che, quando queste forze lanciano continui attacchi alla nostra umanità, abbiamo il diritto, e persino il dovere, di difenderci. Questa è la lezione che la Resistenza ci ha insegnato e su cui, purtroppo, chi si taccia di rappresentarla oggi sta glissando. Noi crediamo che sia una lezione che vada riesumata. A maggior ragione dal momento in cui le forme istituzionali, anche dichiaratamente antifasciste, non limitano lo spazio d’azione del neo-fascismo ma piuttosto se ne fanno difensori, diffondendo odio e facendo repressione contro le forze anti-fasciste. Dal nostro punto di osservazione, vediamo persone lasciate a morire in mare quasi ogni giorno, vediamo campi di concentramento che vengono eretti in Libia per tenere fuori dall’Europa esseri umani, vediamo nuovi colonialismi prendere forma in Niger, e vediamo neo-fascisti aggredire, accoltellare, e aprire il fuoco contro noi e i nostri fratelli e sorelle migranti nelle città dove viviamo e negli spazi che creiamo. A questa escalation di violenza faremo fronte difendendoci con ogni mezzo possibile, strada per strada, quartiere per quartiere.
2) Antifascismo comunicativo
Questo secondo campo d’azione è quello in cui, nelle scorse settimane, abbiamo sentito maggior urgenza di intervento, ma sul quale siamo probabilmente più impreparati. Ci troviamo di fronte ad una tattica attuata storicamente dai fascismi: ricavarsi spazi attraverso il ricorso a linguaggi semplicistici, messaggi bi-dimensionali e connivenze implicite e dichiarate con mezzi di comunicazione vecchi e nuovi. Anche qui ci sentiamo solo di abbozzare delle linee di intervento che vanno dal boicottaggio alle azioni dirette, dall’occupazione sia fisica che mentale dei mezzi di comunicazione, dall’hackeraggio di pagine e siti al bloccaggio forzato di profili che sputano odio, fino alla partecipazione attiva come produttori di opinioni, eventi culturali, e materiali sia su piattaforme già esistenti che attraverso la creazione di nuovi spazi comunicativi, dalle fanzine murarie alle free-press, dai blog alle pagine facebook.
Qui, riteniamo che sia necessario autoformarci, dal punto di vista politico, analitico e tecnico. Vediamo la necessità di re-imparare a parlare al di fuori dei circoli dell’antifascismo militante e sviluppare linguaggi che sappiano raggiungere quelli di noi che non fanno parte di queste realtà. È ora di abbandonare i linguaggi triti dell’attivismo regressista, le parole oramai vuote dei suoi comunicati e la spocchia che ci ha a lungo spinto a non sporcarci le mani nel dibattito pubblico. Siamo coscienti che su scala nazionale questo rimane per ora molto al di sopra delle nostre possibilità, ma abbiamo scoperto che nelle realtà territoriali in cui operiamo l’universo mediatico a cui la popolazione è esposta è spesso limitato a poche testate e gruppi facebook. Crediamo che un’attenzione speciale vada rivolta verso la comunicazione su internet, un terreno che gruppi neo-fascisti e promotori di «cultura neofascista» hanno spesso saputo interpretare e fare proprio più di noi. Questi spazi virtuali, abbiamo visto sul nostro territorio, rappresentano l’ultima frontiera per i neo-fascisti che, pur essendo fantocci numericamente esigui nel mondo reale, qui si presentano come squadracce digitali, moltiplicandosi in rete attraverso il posting ossessivo e il trollaggio. A tutto questo dobbiamo opporci con la stessa forza e disciplina con cui lo facciamo in piazza.
3) Antifascismo popolare
Questo terreno, notiamo con piacere, sta già vivendo grossi interventi nei territori. Questi interventi si declinano quotidianamente in attività di mutualismo, solidarietà e lotta per la rivendicazione dei diritti dei lavoratori, dei migranti, degli occupanti per necessità, delle donne, degli anziani e di tutti gli esclusi. Il loro intento è quello di rovesciare la guerra tra poveri e dimostrare concretamente che la collaborazione, la solidarietà, e l’auto-organizzazione sono l’unica vera risposta alla condizione attuale e al dilagare della «cultura neo-fascista». Anche qui i metodi sono e devono rimanere compositi: dalle camere contro lo sfruttamento agli sportelli legali, dalle università popolari dove fare auto-formazione ai dopo-scuola, dalle cliniche autogestite alle palestre popolari.
Dobbiamo però fare attenzione a non riprodurre dinamiche autoritarie e di assistenzialismo. Il nostro scopo non è di fornire servizi laddove lo stato sta smettendo di farlo ma di creare fucine di lotta, auto-determinazione e costruzione di soggetti politici. Se vogliamo davvero dar forma ad un altro tipo di realtà e di collettività è necessario che tutti mettiamo al bando sfiducia e il sospetto nei confronti di chi la pensa diversamente: già ci ha pensato la società a far sì che ci conformassimo a modelli autoritari, a etichettature e a confini. Dobbiamo lavorare per uscirne. Così come nell’antifascismo comunicativo, crediamo che prima ancora di intervenire sulla scala nazionale dobbiamo concentrarci sui nostri territori e i loro abitanti, fornendo alternative possibili.
Per concludere, queste riflessioni non hanno alcuna volontà di sovra-determinare o indirizzare le forme, i linguaggi, e i metodi dell’antifascismo militante oggi. Qui nessuno ha oracoli o illuminati ma solo persone che a forza di galleggiare nella merda hanno voglia di sporcarsi le mani e cominciare a spalarla. Questa lotta politica si gioca nei territori ed è legata alle loro specificità, sfide, e realtà. L’antifascismo non è un progetto a termine e perciò riteniamo fondamentale creare alternative in una prospettiva a lungo termine. Sentiamo la necessità di costruire nuovi spazi di socialità che siano il più possibile aperti a tutti quelli che si offrono di essere al nostro fianco, accoglienti della diversità che contraddistingue le società contemporanea, ma coerenti nel costruire un’alternativa reale alla frammentazione politica e alla «cultura neo-fascista». Questo documento è un piccolo passo in quella direzione, un tentativo di condividere le nostre riflessioni derivate dall’esperienza di trovarsi di fronte al peggiore tentativo di strage fascista negli ultimi trent’anni in un contesto sociale che ha avuto grosse difficoltà a condannarlo inequivocabilmente, come ci si sarebbe dovuti aspettare. Noi ripartiamo da qui, coscienti che questo processo richiederà continue rivalutazioni, riflessioni e cambi di rotta, ma anche certi che ognuno di noi saprà fare quanto necessario per difendere la propria libertà.
Antifa Macerata