Quando gli Stati e il grande capitale fanno della guerra la condizione permanente per milioni di persone, la sola speranza è la rivolta e l’insubordinazione di tutt*. Boicotta il regime turco!
CHIAMIAMO LE COSE CON IL LORO NOME: QUESTO È SIA GENOCIDIO CHE GENICIDIO
di Gianni Sartori
Qualche giorno fa, il 3 novembre, Ceren Gunes era caduta in combattimento contro l’invasione turca del Rojava. Membro del comitato centrale del DKP/BIRLIK (Partito Comunardo Rivoluzionario/Unità), Ceren era anche comandante del Battaglione Internazionale di liberazione (IFB) e coordinatrice dei volontari internazionali. La giovane comunista lottava in Rojava da ormai quattro anni.
È invece del 7 novembre la notizia della morte in combattimento di altri due esponenti del DKP/BOG (Partito Rivoluzionario dei Comunardi/Forze Unite di Liberazione). Una dirigente del partito, Goze Altuniz (nome di battaglia: Aynur Ada) e il miliziano Yasin Aydin (nome di battaglia Imran Firtina). Entrambi lottavano nelle fila del Battaglione Internazionale di Liberazione.
Significativo che, sia tra le vittime civili che tra quelle dei combattenti, il numero delle donne uccise dai turchi e dai loro alleati jiadisti sia così alto. Tra le possibili ragioni (oltre alla protervia maschilista-patriarcale degli invasori) anche la determinazione delle guerrigliere per non cadere vive nelle mani di questi fascisti, stupratori e assassini di donne.
Oltre che di genocidio, si dovrebbe quindi parlare anche – o soprattutto? – di ginicidio.
Per restare invece sulle generali, va sottolineato che l’operato genocida della Turchia nei confronti del popolo curdo non risale né a oggi, né a ieri.
Ma sicuramente dalla metà del 2015 si è avuta un’impennata. Oggi l’opinione pubblica sembra accorgersi di quanto avviene in Rojava (nel Nord della Siria), ma aveva ignorato quasi del tutto gli analoghi massacri in Bakur e Bashur (rispettivamente il Kurdistan “turco” e quello “iracheno”) iniziati – o meglio ripresi – appunto nel luglio 2015.
Quella che potevamo considerare una sorta di “tregua” (o almeno un attimo di respiro) concessa alla popolazione curda sotto amministrazione turca nei primi anni del XXI sec. sfumò da un giorno all’altro quando – nel giugno 2015 – i curdi si rifiutarono di votare Erdogan e il suo progetto autoritario. Votarono invece per il partito HDP che promuoveva alcuni diritti basilari: un sistema scolastico in lingua curda, l’autogoverno a livello locale, rivitalizzare la cultura curda…
Dal luglio 2015, come ritorsione, le forze armata turche posero sotto assedio molte città curde e rasero al suolo interi quartieri (come il centro storico di Dijarbakir, la Guernika curda). Oltre a centinaia di vittime civili, la guerra di Ankara causò la partenza di un milione e mezzo di sfollati.
Si calcola che soltanto a Cizre circa 140 curdi siano stati bruciati vivi nelle cantine (febbraio 2016).
E non solo in Bakur. Nella regione di Qandil (Bashur, Kurdistan “iracheno”) dove la Turchia occupa illegalmente una ventina di basi militari sia i civili sia i guerriglieri del PKK vengono sistematicamente bombardati, sia da terra che dall’aria. Nelle mire di Ankara soprattutto la regione di Shengal, abitata da yazidi e quella petrolifera di Mosul-Kirkuk. Regioni su cui rivendica inesistenti diritti in quanto nel passato erano state occupate dall’impero ottomano.
Mentre nel 2018 era toccato al canone curdo di Afrin di veni invaso, adesso è la volta del Rojava. Qui Ankara sembra voler completare (con il benevolo sostegno di Washington e Mosca e – si ritiene – la muta soddisfazione di Teheran) l’operato criminale di Daesh: esecuzioni extragiudiziali, stupri, torture..
Non per niente da quando, in ottobre, è stata invasa e occupata la regioni di Tal Abyad, altri 300mila curdi hanno dovuto lasciare le loro case.
La prossima sarà Kobane? Per ora sono state le donne del vicino villaggio di Jinwar (“Il villaggio delle donne libere”) a scegliere di allontanarsi prima dell’arrivo delle milizie jiadiste al servizio di Ankara.
Gianni Sartori