La politica è come una giostra. A chi sta a terra, sembra che qualcuno si sposti da destra a sinistra e qualcun’altro da sinistra a destra, in una danza rapida e leggera. Da oltre un secolo si chiama «trasformismo». Ma in realtà ogni politicante sta ben aggrappato al suo cavalluccio.
Ecco il postfascista Gianfranco Fini che invita a una nuova Resistenza contro il berlusconismo e il leghismo. In un messaggio inviato all’ANPI della Bolognina per commemorare la battaglia del 14 novembre 1944, il subcomandante Fini scrive:
«Commemorare gli eroici combattenti del 14 novembre del 1944 quando, in piazza dell’Unità, 19 partigiani opposero una strenua resistenza ai rastrellamenti e alle violenze delle truppe nazifasciste, rappresenta un dovere delle istituzioni che hanno il compito di trasmettere alle nuove generazioni i principi della nostra democrazia. Per evitare che l’orrore della dittatura si ripeta è necessario che nella coscienza di tutti sia ben presente la testimonianza di quanti lottarono per la libertà. Sono profondamente convinto infatti che la tutela della libertà sia un esercizio quotidiano attraverso il quale rafforzare la coesione nazionale, nella comune consapevolezza che la lotta partigiana per la liberazione è stato uno dei capitoli fondamentali della nostra storia unitaria».
Insomma, una «chiamata alle armi» dinanzi alla possibilità, oggi non così remota, che «l’orrore della dittatura si ripeta», che si sfaldi la «coesione nazionale» e che Berlusconi e Bossi clonino sé stessi e restino al potere per i prossimi 1000 anni. Certo, ci sarebbe da ridere, se non fosse che, fino a ieri, proprio Fini è stato nei fatti uno dei cupi protagonisti del regime berlusconiano: autore con Bossi della legge razzista che perfezionava la già pessima legge Turco-Napolitano, autore con Giovanardi della legge proibizionista e punitiva sulle droghe, colui che nel 2001 a Genova stava nella centrale operativa di una delle repressioni poliziesche più feroci che questo paese abbia vissuto dopo il Fascismo, colui che dichiarava «un gay non può fare il maestro: è diseducativo per i bambini».
Sull’altro lato della giostra, c’è ora l’ineffabile Piero Sansonetti, accorso in Calabria per una difesa garantista e democratica della ’ndrangheta e del potere mafioso che governa quelle bellissime contrade. Sulle pagine del giornale che dirige, «Calabria ora», insinua di continuo che la mafia non sussiste o comunque non è un problema. È il cosidetto «benaltrismo» del Sansonetti: di fronte a qualsiasi conflitto reale, il problema è sempre «ben altro», «ben altri sono i problemi»…
Ora, per affrontare questi «ben altri problemi», Sansonetti ha lanciato la nuova linea politica per il Sud, una sorta di leghismo alla rovescia, rivalutando i moti neofascisti di Reggio Calabria del 1970-71 e rispolverando come parola d’ordine lo slogan «Boia chi molla!» (che dovrebbe diventare il corrispettivo sudista di «La Lega ce l’ha duro!»).
Una delle pagine più buie della storia italiana, un misto di golpismo, mafia, neofascismo e interessi politici, viene presentata come un episodio luminoso da cui il Sud dovrebbe ripartire: «Altro che slogan fascista», fantastica Sansonetti, «Boia chi molla! lo inventarono gli insorti che nel 1799 diedero vita alla gloriosa Repubblica napoletana […] e fu ripreso da Carlo Rosselli» e «la manifestazione dei sindacati del 1972 [centinaia di migliaia di lavoratori e studenti antifascisti da tutta Italia] fu sbagliata, sbagliatissima».
Ora, lo slogan «Boia chi molla!» non fu adottato dai neofascisti per presunte memorie della rivolta napoletana del 1799 o dell’antifascista Carlo Rosselli (Sansonetti ricalca il revisionismo con cui i neofascisti cercano di manipolare Wikipedia). Anzi, i rivoluzionari del 1799 non lo usarono mai e, negli anni Trenta, Rosselli intitolò un giornale clandestino antifascista con il ben più libertario «Non mollare».
Nel 1971 lo slogan «Boia chi molla!» fu usato dai neofascisti perché lo trovavano come titolo di un libro di Bruno Borlandi: «Boia chi molla!» L’ultima battaglia per Trieste 1943-1945, Milano, Ed. del Borghese, 1969. Ed era lo slogan dell’ultima battaglia della Repubblica Sociale Italiana al fianco della Germania nazista. Nel 1971 la «rivolta» neofascista di Reggio Calabria onorava implicitamente la memoria infame della R.S.I.: razzismo, antisemitismo, violenza, stragi, subalternità idiota a una gerarchia.
Ma, anche così, Sansonetti non è sceso dal suo cavalluccio di plastica: gli ex stalinisti come lui, ex funzionario del P.C.I., non perdono certo il vezzo di reinventare il passato per manipolare il presente, sempre al servizio del viceré di turno.