Il 22 febbraio 1980 Valerio Verbano veniva ucciso a 19 anni da un commando di neofascisti. Dopo aver fatto irruzione nell’appartamento e legato i genitori, lo attesero in casa per ucciderlo.
Militante dell’estrema sinistra e antifascista, con la passione per la fotografia e il metodo del giornalista d’inchiesta, Valerio fu ucciso per un dossier in cui tentava di ricostruire i legami tra gruppi neofascisti, ambienti malavitosi, forze dell’ordine e apparati statali.
L’unica cosa certa è che il commando fosse composto di neofascisti. «La pista nera», dice la madre, «è l’unica che abbiamo riconosciuto, anche perché furono i NAR [Nuclei armati rivoluzionari, responsabili anche della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980] a rivendicare l’omicidio con un particolare che solo chi aveva sparato poteva conoscere. Al telefono dissero: “Abbiamo lasciato nell’appartamento una Beretta 7,65 che la polizia ha nascosto senza informare la stampa”. Quella pistola era rimasta davvero a casa nostra…».
A distanza di trent’anni, gli assassini non hanno un nome e lo Stato si è distinto solo per le sue reticenze, la manomissione e la scomparsa di prove, i consueti depistaggi a beneficio dell’estrema destra.
A distanza di trent’anni, i neofascisti rivendicano ancora l’omicidio imbrattando a Roma il murale che ricorda Valerio Verbano.
Noi non dimentichiamo.
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