In questi giorni, il settimanale «Oggi» ha pubblicato l’ennesima intervista a Licio Gelli, uno dei burattinai neri della storia italiana del pieno e tardo Novecento: «Giulio Andreotti sarebbe stato il vero padrone della Loggia P2?», chiede l’intervistatore. «Per carità… io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l’Anello…». L’Anello? «Sì, ma ne parleremo la prossima volta». Con poche parole, il fascista Licio Gelli ammette per la prima volta l’esistenza di un terzo livello segreto dello Stato, l’Anello: un servizio segreto parallelo e clandestino, scoperto solo di recente nel corso della nuova inchiesta sulla strage di Brescia, fondato nel 1944 dal generale Roatta per i «lavori sporchi» che non dovevano coinvolgere direttamente uomini dei servizi e implicato nella «strategia della tensione» e nelle stragi di Stato.
Quella delle stragi di Stato è una strategia non solo italiana, ma tipica dei regimi autoritari e polizieschi travestiti da «democrazia». Alcuni giorni fa, come informa Mazzetta, il Procuratore generale dell’Egitto ha messo sotto accusa per la strage alla chiesa copta di Alessandria l’ex-ministro dell’interno Habib el-Adly, braccio destro di Mubarak negli ultimi quattordici anni. Da testimonianze e documenti è emerso che al-Adly ha organizzato da ormai sei anni alcune unità speciali, ponendole sotto il comando di ventidue ufficiali. Le unità sono composte di estremisti islamici e delinquenti scelti tra i carcerati del regime, agenzie private di «sicurezza» e membri della polizia e dei servizi del Ministero dell’Interno. Dovevano servire a praticare una vera e propria «strategia della tensione» attraverso attentati e atti di violenza utili al regime.
Intanto, sono state depositate le «motivazioni» della sentenza del processo sulla strage di Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 100 feriti) conclusosi il 16 novembre scorso con l’assoluzione di tutti gli imputati. Dopo aver scoperchiato il pozzo nero e maleodorante dello stragismo statale, i giudici si sono affrettati a richiuderlo con il solito ragionamento parziale e sofistico che si potrebbe definire, in senso tecnico, revisionista: quello di dividere un evento unico in segmenti, brandelli, particelle, bruscoli, fino a far scomparire la logica che lo ha prodotto e a mettere in discussione, pirandellianamente, il fatto stesso. Nelle 435 pagine delle «motivazioni» si legge: «I risultati, in termine di ricostruzione del fatto, appaiono potenzialmente schizofrenici. E, infatti, in base alle regole oggi vigenti, potrebbe giungersi a ricostruire un fatto differente (sebbene naturalisticamente identico) per ogni imputato, a seconda degli elementi utilizzabili nei suoi confronti e per alcuni potrebbe giungersi, in astratto, a negare la stessa sussistenza del fatto». Insomma, Uno, nessuno e centomila.
È la stessa logica delle «motivazioni» per l’omicidio neofascista di Nicola Tommasoli: secondo i giudici, anche in questo caso non vi fu «una sola aggressione», ma «una pluralità di aggressioni seppur attuate contestualmente». Ed è la stessa logica da Azzeccagarbugli per cui il potere non processa mai sé stesso. Oggi i ribelli egiziani ci insegnano che soltanto una rivoluzione può liquidare lo stragismo, le strategie della paura, i razzismi legali promossi dagli stati.