Pare che la riedizione del saggio sulla Cultura di destra di Furio Jesi (Roma, Nottetempo, 2011) abbia parecchio infastidito e inquietato il destrologo Marcello Veneziani, che già nell’aprile di quest’anno, punto sul vivo, criminalizzava la riproposizione del libro di Jesi: «un brutto indizio che si regredisca ai feroci e cupi anni Settanta con un trattato di criminologia culturale».
Con una lettura accurata dei testi del razzista Julius Evola, nel 1979 Jesi dimostrava che il «neofascismo sacro» o «in doppio petto» (quello apolitico ed elitario che difende la Tradizione minacciata) e il «neofascismo profano» o «dalla faccia feroce» (quello della violenza e dello stragismo nero) erano due aspetti di una stessa «cultura»: la «cultura di destra», cultura del vuoto e religione della morte.
Ma, si sa, la lingua batte dove il dente duole, e il povero Veneziani continua a polemizzare vanamente con la «criminologia culturale» e i «questurini dell’ideologia». Lo fa anche ora, per i cinquant’anni di un classico volume di Julius Evola, Cavalcare la tigre. E lo fa con una serie di tic nervosi che tradiscono la consapevolezza degli squallori autoritari della cultura di destra.
Si comincia con un indegno giochetto verbale sull’effetto bomba:
«Cavalcare la tigre compie ora cinquant’anni e la Fondazione Evola diretta da Gianfranco de Turris ha deciso di ricordare quell’opera che ebbe un effetto bomba sulla destra giovanile, soprattutto quella radicale. E ha organizzato all’Accademia di Romania in Roma un incontro per discutere di quel libro di culto che pervase almeno tre generazioni di non conformisti».
Si passa all’apologia di un eufemistico punto zero:
«Cavalcare la tigre è l’opera di un pensatore legato alla Tradizione il quale, vivendo nell’irreversibile Età Oscura (kaly yuga), in preda a decadenza, desolazione e rovine, favorisce la corsa verso la dissoluzione perché solo raggiungendo il punto zero si potrà poi risalire e invertire la rotta».
Si giunge poi a ripulire il busto marmoreo del Grande Intellettuale da eventuali schizzi di sangue:
«Nelle mani dei giovani radicali di destra Cavalcare la tigre diventò un libro pericoloso. Ma non perché istigasse alla violenza e al terrorismo, come pensarono alcuni questurini dell’ideologia, ma perché diventò un nobile alibi per scelte anarco-individualiste, per esperienze trasgressive e alienanti e per la fuga dalla politica».
Si conclude negando alquanto ambiguamente ogni rapporto tra «neofascismo sacro» e «neofascismo profano»:
«Alla fine prevalse l’individualismo, il rifiuto della politica, magari il culto dell’esteta armato, ma nella disperazione eroica e nel rifiuto stoico; genere Yukio Mishima, per intendersi. Quel libro divenne l’alibi per esperienze trasgressive, ma anche per comportamenti sdoppiati, quasi schizoidi o perfino per piccoli compromessi col presente. Fu un alibi sontuoso per cedimenti meschini o comunque umani, troppo umani».
Insomma, secondo Veneziani, in realtà gli allievi furono indegni del Maestro che, purtroppo, fu accidentalmente disarcionato…
«Poi, davanti al ’68, Evola tornò alla Tradizione, si spinse nel ruolo di teorico di una Destra metastorica e postfascista e si spense nel ’74, in piena epoca di stragi «nere» che gettarono su di lui un’ingiusta luce diabolica, da Grande Ispiratore. Poi la tigre disarcionò i suoi cavalcatori e continuò a correre verso il nulla».
Ma quello che più muove il risentimento del povero Veneziani è che, fra l’altro, il libro di Jesi dimostra quanto Evola fosse intellettualmente un cialtrone e politicamente un razzista non solo su base «spirituale», ma anche biologica, in nome della Stirpe e della Tradizione. Robaccia carica di false dorature tradizionaliste, paccottiglia esoterica buona solo a produrre un «effetto bomba» che, quello sì, ha pesato e pesa sulla storia di questo paese.