Non c’è dubbio che «Diaz. Non pulire questo sangue» sia un film generoso e coraggioso. Una persona mediocre ha detto che il film non farebbe i nomi dei responsabili. Ma le violenze preordinate della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto sono durate per un decennio e hanno avuto tantissimi responsabili, complici, depistatori bipartisan. Le torture terribili di quei giorni del 2001 hanno rappresentato una garanzia d’impunità per gli apparati repressivi dello Stato aprendo la strada alla violenza securitaria: angherie, pestaggi, stupri, omicidi, morti anomale, deportazioni, arresti ingiustificati, montature giudiziarie, intimidazioni, uso creativo e vendicativo delle leggi, prepotenze di ogni genere.
Con assai meno vittime, le torture della Diaz e di Bolzaneto hanno avuto la stessa finalità politica delle stragi di Stato degli anni Settanta. Generare paura, isolare le persone, spegnere ogni speranza di trasformazione sociale. Un sogno di libertà disperso da un risveglio sotto i tonfa dello Stato.
Oggi l’incubo sta finendo. Oggi noi tutti guardiamo dentro le nostre paure sapendo che non basteranno più né i tonfa, né le torture, né le trappole giudiziarie, né gli imbrogli legali o elettorali. Secondo un sondaggio recente, il 32.2 per cento degli italiani, praticamente uno su tre, ritiene che l’unico mezzo per uscire dall’attuale situazione sia una rivoluzione. Oggi la questione che si pone è piuttosto un’altra: quale rivoluzione?
«Diaz» è un buon segno: una presa di coscienza di ciò che abbiamo ancora di fronte. Come è un altro buon segno che il «Giornale» spanda veleno sul successo televisivo del documentario «Black Block» di Carlo A. Bachschmidt trasmesso da RaiTre. Singolare il gradimento dei telespettatori: 525mila con il 6,11% di share. Mica male, tenendo conto dell’argomento (racconti delle torture della polizia) e dell’orario (mezzanotte).
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