Sembra passato tanto tempo da quando, nel 2008, il sindaco-sceriffo Sergio Cofferati voleva mettere l’esercito a guardia del CIE di Bologna per evitare possibili fughe di «clandestini». Nel 2013, il suo vice di allora – che sul CIE ha continuato a tacere per un decennio – Virginio Merola ha parlato tutt’a un tratto di quel carcere razzista come di un «cuore di tenebra». E ora si appresta a riaprirlo con un nome nuovo (CARA) e, dicono, con funzioni d’accoglienza, «una battaglia di civiltà vinta»…
Oggi in Italia, sotto la parola «accoglienza», si sta compiendo una nuova sperimentazione nella gestione dei migranti con la costituzione di campi di smistamento a metà strada tra CIE e CARA, chiusi da reti di recinzione e ordinati secondo norme che impongono una sorta di semilibertà ai loro «ospiti», in un quadro di «assistenza» oggettivamente spersonalizzante e straniante.
Quello dei molteplici nomi della violenza istituzionale è un gioco tipico del potere: CPT (Centri di Permanenza Temporanea), CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza), CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione)…
Fra il 1999 e il 2002, prima che approntassero le gabbie alte cinque metri del CIE-CPT di via Mattei, nel Centro di Bologna si poteva entrare e uscire, parlare con i migranti, solidarizzare, portare quanto fosse necessario.
Poi nel dicembre del 2000 il Comune di Bologna chiuse gli uffici dell’ISI che si occupavano di integrazione e di interculturalità e, poco dopo, nel 2002 fu inaugurato il «cuore di tenebra» di via Mattei con le sue gabbie razziste alte 5 metri.
È che questi «centri», questi «campi», una volta istituiti, restano in mano alle burocrazie statali e si riempono di significati diversi ma affini a seconda del clima storico. Sono oggetti pericolosi che andrebbero distrutti e non rinominati con nuove sigle.