Il 7 maggio ricorre il 45° anniversario dell’assassinio di Franco Serantini per mano della polizia. Oggi, in tutto il mondo, le strutture del potere statale continuano ogni giorno a manganellare, inquinare, uccidere e insabbiare le verità scomode. Ricordare ogni nome, tramandare ogni storia è già una forma minima di resistenza all’oppressione e di presa di coscienza che lottare è possibile, cambiare necessario.
FRANCO SERANTINI, IL SOVVERSIVO DIMENTICATO
di Gianni Sartori
Facile profezia. Come altri anniversari, anche il 45° dell’assassinio di Franco Serantini, passerà inosservato, o quasi. In memoria del giovane anarchico massacrato dalla polizia a Pisa nel maggio 1972 Ivan della Mea (16 ottobre 1940-4 giugno del 2009) aveva scritto una canzone: «… da morto fai paura / scatta l’operazione, rapida sepoltura / È solo un orfano, fallo sparir / nessuno a chiederlo potrà venir...»).
Nel 1997, intervistato, Ivan mi raccontava di averlo incontrato qualche volta a casa di suo fratello Luciano (Luciano Della Mea, scrittore, 1924-2003). Suo fratello ebbe un ruolo non indifferente nel denunciare il pestaggio subito da Franco. Si costituì parte civile con Guido Bozzoni riuscendo a impedire la frettolosa, già richiesta, inumazione del cadavere di Serantini. Da ricordare anche il ruolo dei fratelli Della Mea nelle polemiche che poi sfociarono in due manifestazioni distinte a Pisa.
Riporto testuale quanto mi disse Ivan all’epoca dell’intervista (1997):
«Franco Serantini era molto amico di mia nipote, Maria Valeria Della Mea, anarchica e figlia di Luciano, mio fratello. La ballata in realtà venne scritta da un numeroso gruppo di compagni di varia tendenza, dagli anarchici a Lotta continua. Io mi limitai ad alcuni aggiustamenti metrici e per la musica usai quella di una ballata dedicata a Felice Cavallotti.
A Pisa vi furono due manifestazioni perché c’era chi voleva a tutti i costi appropriarsi della morte di Franco, installarci la sua bandierina. Questa era, in sostanza, la posizione di Adriano Sofri. Invece Luciano, mio fratello, riteneva che la formidabile ondata di sdegno e solidarietà che la morte del giovane anarchico (massacrato dalla Celere e poi lasciato crepare in carcere ndr.) fosse troppo preziosa per farne una questione di bandiera. Alla fine si tennero due distinte manifestazioni: in una parlò Adriano Sofri, nell’altra Umberto Terracini.
Se non ricordo male anche tra gli anarchici vi furono valutazioni diverse. Penso fossero più o meno “equamente” distribuiti tra le due manifestazioni. Tra l’altro pioveva che Dio la mandava. Di questo se ne ricordano bene tutti i partecipanti, tranne Marino che però sostiene di ricordarsi di essere stato istigato da Sofri ad ammazzare Calabresi proprio in quella circostanza…».
Un inciso. Stando alla testimonianza di Valerio, un compagno di Pistoia che prese parte alla manifestazione, ad un certo punto, visto che nel suo intervento Sofri stava poco elegantemente appropriandosi della figura di Serantini, «qualcuno» strappò i fili del microfono per cui il leader di L.C. continuò a parlare, ma quasi nessuno lo intese.
Quanto alla canzone da lui scritta in memoria di Franco, Ivan mi disse di cantarla ancora anche se «naturalmente è una di quelle canzoni che richiede certe spiegazioni. Io le considero “canzoni d’uso per la memoria storica”».*
Presumibilmente, dicevo, l’anniversario passerà inosservato. Eppure la vicenda a suo tempo suscitò una forte emozione. Franco Serantini incarnava suo malgrado la vittima predestinata, il reietto della società, inerme e indifeso, su cui si era scatenata la violenza bruta del Potere.
Franco aveva vent’anni. Era nato in Sardegna nel luglio 1951. Figlio di N.N. Aveva trascorso la sua breve vita tra brefotrofi e istituti di correzione, prima in Sardegna, poi in Sicilia, di nuovo a Cagliari, a Firenze e infine a Pisa.
In pratica viveva in un regime di semilibertà (pur senza la minima ragione di ordine penale) e doveva mangiare e dormire nell’istituto di rieducazione in Piazza San Silvestro. Piccolo di statura, miope, viene descritto da chi lo ha conosciuto (oltre alla famiglia della Mea, cito anche le sorelle Failla e Paolo Finzi) come intelligente e generoso. A Pisa frequentava la scuola di contabilità aziendale ed era affiliato dell’AVIS. Sicuramente le sue personali vicissitudini furono determinanti nell’indirizzarlo verso una scelta radicalmente libertaria. Nell’autunno del 1971 cominciò a partecipare alle riunioni del gruppo «Giuseppe Pinelli» di via San Martino e proprio in quel periodo conobbe e frequentò assiduamente la famiglia di Luciano della Mea.
Il 5 maggio Franco prese parte ad un presidio antifascista indetto da Lotta continua contro un comizio del Movimento Sociale Italiano. Il presidio venne duramente attaccato dalla polizia e Franco si trovò circondato da un gruppo di celerini sul lungarno Gambacorti. Alcune testimonianze confermarono che il giovane non aveva opposto nessuna forma di resistenza.
Personalmente, nel 1989, ho parlato con una signora che mi raccontava di aver assistito dalla finestra al pestaggio e di aver gridato, invano, ai poliziotti di smetterla perché «così finirete per ammazzarlo». A distanza di anni ogni volta che andava al cimitero, dopo aver portato dei fiori sulla tomba di suo marito, ne portava anche su quella di Franco.
Il giovane anarchico, dopo aver subito un durissimo pestaggio, venne trasportato prima nella caserma dei carabinieri e poi nel carcere «Don Bosco» di Pisa. Il 6 maggio venne interrogato. Nel corso dell’interrogatorio gli contestarono soltanto una ipotetica invettiva e, dando prova di un candore che sfiorava l’ingenuità, si dichiarò anarchico.
Dalle sue dichiarazioni: «Fui arrestato mentre scappavo. Mi giunsero addosso una decina di poliziotti e mi colpirono alla testa. Accuso forti dolori al capo ancora attualmente». Nonostante le sue condizioni non venne ricoverato ma messo in cella di isolamento. Il 7 maggio venne trovato privo di sensi nella sua cella; morì alle 9.45 poco dopo essere stato trasportato al Centro Clinico del carcere. Nel pomeriggio dello stesso giorno le autorità del carcere cercarono di ottenere tempestivamente l’autorizzazione al trasporto e al seppellimento del cadavere, ma l’ufficio del Comune si rifiutò di concedere il benestare alla tumulazione. Fu allora che Luciano della Mea decise di costituirsi parte civile e richiedere l’autopsia.
L’avvocato Giovanni Sorbi così lo ricordava: «Un corpo massacrato, al torace, alle spalle al capo, alle braccia. Tutto imbevuto di sangue. Non c’era neppure una piccola superficie intoccata…».
Il 9 maggio 1972 venne sepolto con una grande partecipazione popolare. Il discorso di commiato venne pronunciato da un anziano militante anarchico, Cafiero Ciuti.
Sulla sua tomba, anche a distanza di anni, sventolavano sempre una bandiera rossa e una bandiera nera. Il 13 maggio 1972, dopo una grande manifestazione, venne deposta una lapide in suo ricordo all’ingresso del palazzo Tohuar, sede dell’istituto che aveva ospitato Franco. A Torino gli venne dedicata una scuola e nel 1979 sorse a Pisa la biblioteca che porta il suo nome. Nel 1982 in piazza S. Silvestro, ribattezzata piazza Serantini, venne inaugurato un monumento in sua memoria donato dai cavatori di marmo di Carrara. Anche un noto alpinista «Manolo» (M. Zanolla) volle dedicargli una sua impresa. Sulla parete Sud Ovest del Dente del Rifugio in Val Canali (Pale di San Martino) esiste una impegnativa via di roccia (6° +) intitolata appunto a Franco Serantini.
Nonostante le indagini sulla morte del giovane anarchico finissero sepolte nei «non ricordo» degli ufficiali di PS presenti al fatto, la vicenda rimase a lungo ben presente nell’opinione pubblica grazie a una costante campagna informativa dei giornali anarchici (in particolare «Umanità nova»), del quotidiano Lotta Continua e dei comitati «Giustizia per Franco Serantini». Fondamentale per conservare la memoria di questo ragazzo che credeva nella giustizia e nella libertà fu il libro di Corrado Stajano «Il sovversivo – Vita e morte dell’anarchico Serantini» pubblicato da Einaudi nel 1975.**
A 45 anni di distanza vorrei ricordarlo ritto in piedi tra il fumo dei lacrimogeni. Piccolo grande guerriero armato solo di parole che si erge contro le ingiustizie del mondo. Mentre attorno a lui si addensano le ombre cupe dei massacratori senza volto.
Gianni Sartori
*nota 1: Un’altra canzone su Franco Serantini la scrisse Pino Masi. Sulla stessa musica di «I dreamed i save Joe Hill last Night» (ricordate l’emozionante esibizione di Joan Baez a Woodstock nel 1969?), con precisi riferimenti anche nel testo, il cantautore di riferimento di Lotta Continua scrisse «Quello che mai potranno fermare» – conosciuta anche come «Ho fatto un sogno questa notte». Talvolta viene confusa con quella scritta da Ivan o con un’altra, sempre per Serantini, composta da Piero Nissim.
**nota 2: Questa vicenda ebbe anche un piccolo risvolto vicentino. La notizia della sua morte arrivò in piazza dei Signori e venne ricordata in un intervento mentre si svolgeva una manifestazione a sostegno degli obiettori di coscienza che all’epoca venivano spediti direttamente nel carcere di Peschiera. Due obiettori, tra cui Matteo Soccio, dovevano consegnarsi alla polizia, ma quando salirono sul palco nessuno si fece vivo.
Vennero arrestati poco dopo, quasi di nascosto, mentre se ne stavano andando. La cosa suscitò un certo disappunto tra i presenti, scoppiarono dei tafferugli e due compagni, un padovano e un vicentino, vennero arrestati. Poi numerosi manifestanti si incamminarono verso la questura dove vennero pesantemente caricati. Non posso escludere che la notizia della morte ingiusta di Serantini abbia contribuito ad alimentare l’indignazione dei presenti. Oltre ai due fermati (rimasero in carcere per qualche giorno) vi furono vari contusi (tra cui il fotografo, allora militante anarchico, Giuliano Francesconi) e almeno due feriti abbastanza gravi: per Chiara Stella e Francesco (?) la diagnosi fu di commozione cerebrale.