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Fine anno di resistenza per il popolo curdo

Sono tanti i luoghi in cui si combatte e si resiste. Ma la regione autonoma del Rojava, così come esiste oggi, è uno dei raggi di luce – un raggio di luce molto luminoso – a emergere dalla tragedia della Rivoluzione siriana e dalla manipolazione delle Primavere arabe da parte di Europa e Stati Uniti. Dopo essersi liberato dal regime di Assad nel 2011, il Rojava non solo ha mantenuto la propria indipendenza, ma si è configurato come un considerevole esperimento di democrazia libertaria. Ne parleremo a Vag61 il 26 gennaio, ma intanto esprimiamo solidarietà ai prigionieri curdi di PKK e PAJK in lotta contro il fascismo di Erdogan.

Fine anno di resistenza per il popolo curdo, sia in Kurdistan che in Europa
di Gianni Sartori

Premessa di carattere clinico. C’è sicuramente qualcosa di paradossale, schizofrenico, nell’agire di Erdogan. Solidale in politica estera con il popolo oppresso palestinese, repressivo in politica “interna” nei confronti dell’altrettanto oppresso popolo curdo. Una sorta, quello di Ankara, di “colonialismo interno di Stato”, profondamente analogo a quello praticato da Israele verso i palestinesi.

In questo mese di dicembre 2017, in una dichiarazione dei prigionieri curdi di PKK e PAJK è risuonata l’eco della mai dimenticata protesta dei POW irlandesi degli anni settanta. Il rifiuto di indossare la divisa carceraria da parte dei detenuti repubblicani (in quanto prigionieri politici e non criminali) portò prima alla protesta degli “uomini-coperta” e infine allo sciopero della fame del 1981 che costò la vita a dieci militanti (tre dell’INLA, sette dell’IRA).

Nel loro comunicato del 26 dicembre, i prigionieri curdi definiscono come “fascismo” l’imposizione della uniforme carceraria.

Di sicuro tale norma non verrà né accettata, né subita pacatamente: “Noi come detenuti del Pkk e del Pajk non indosseremo mai l’uniforme. Noi la faremo a pezzi se la costringerete su di noi. La nostra posizione su questo argomento è veramente chiara. Lo scopo principale dell’uniforme è di spogliare gli individui della loro identità e volontà”.

Ossia l’imposizione per decreto “dell’omogeneità dello stato nazione e la sua politica della negazione e dell’annientamento.

Con orgoglio i prigionieri curdi rifiutano l’ennesimo attacco nei confronti della loro dignità e rivendicano la loro identità di resistenti, di “persone che difendono i diritti umani e la libertà di pensiero per una vita libera e giusta. Noi siamo le persone che lottano per la libertà sociale e la verità in linea con la legittima autodifesa per i nostri obiettivi e ideali”.

Si evoca anche, nel comunicato, la ribellione del 14 luglio del 1982, quando la lotta si estese alle carceri coinvolgendo circa 8mila prigionieri politici. Per la cronaca, il 1982 era l’anno in cui entrava in vigore la nuova Costituzione turca e venivano criminalizzati sia l’uso della lingua curda che ogni altra espressione culturale.

E IN EUROPA?

Intanto in Europa, a Strasburgo, il presidio a tempo indeterminato che da anni si tiene davanti al Consiglio d’Europa ha visto crescere in dicembre la partecipazione di centinaia di persone divenendo un vera e propria manifestazione di massa.

La richiesta, costante negli anni, rivolta sia al Consiglio d’Europa che al CPT (Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) rimane quella di togliere il leader curdo Abdullah Öcalan dal duro regime di isolamento a cui viene sottoposto.

Dal settembre del 2016 mancano notizie precise sul suo stato di salute e si teme per la sua sicurezza, come per quella degli altri detenuti. Oltre 700 (settecento!) richieste dei suoi avvocati per poterlo incontrare sono state respinte, in violazione di ogni norma e regolamento onusiani e del Consiglio d’Europa, compresi quelli firmati dalla stessa Turchia.

In particolare: Convenzione dell’ONU del 10 dicembre 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti e Protocollo aggiuntivo dell’ONU del 4 febbraio 2003. Tutti regolamenti (ratificati dalla Turchia nel settembre 2005) che impegnano gli Stati a garantire che le persone in stato di detenzione non siano esposte alla tortura o a altre misure inumane o degradanti. Anche consentendo che tali persone prigioniere vengano visitate regolarmente nelle loro celle ai fini di misure preventive non giudiziarie.

A questo punto è lecito chiedersi perché le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa mantengano tale atteggiamento di totale inerzia e indifferenza di fronte a quelle che appaiono con evidenza autentiche violazioni dei diritti del prigioniero politico Öcalan.

In particolare, il CPT avrebbe diritto alla visita negli istituti di pena potendo quindi ispezionare e indagare autonomamente dato che ogni Stato firmatario si è impegnato a permettere tali visite e a collaborare con il CPT. In teoria, il comitato dispone di un accesso illimitato alle aree di sorveglianza e può muoversi senza alcuna limitazione, anche incontrando i prigionieri separatamente, senza la presenza di guardie o altro. Nel secondo paragrafo della Convenzione Europea per la prevenzione della tortura viene stabilito che le visite possono svolgersi in qualsiasi momento; non solo in tempo di pace, ma anche durante stati di guerra e di emergenza. Se il rispettivo Paese non dovesse collaborare o non accettare le raccomandazioni del comitato, a questo Paese – se i due terzi dei componenti votano a favore – e successivamente all’opinione pubblica viene fornito un documento sul caso preso in esame. Ma questo non sta avvenendo nel caso di Ocalan, mettendo in forse ogni dichiarazione di buoni propositi per impedire che le persone in stato di detenzione vengano sottoposte a minacce e pericoli.

Insomma, è lecito chiedere al CPT, come intende, qui e ora, garantire la sicurezza e l’integrità psicologica e fisica del prigioniero Öcalan?

COMPLIMENTI ALL’ANC

Da segnalare la presa di posizione, di segno diametralmente opposto, di una organizzazione come l’African National Congress (ANC, il partito di Nelson Mandela). Durante il suo 54° congresso (Johannesburg, dicembre 2017) ha pubblicamente richiesto l’immediata liberazione di Öcalan e di tutti i prigionieri politici. Il nuovo segretario dell’ANC, Ramaphosa (così come quello uscente, Zuma) aveva condiviso la dura lotta contro l’apartheid (costata ai Neri della RSA lutti, sofferenze, impiccagioni, secoli e secoli di detenzione) del compianto Nelson Mandela. E niente come la definizione di “Mandela curdo” esplicita quale sia il ruolo attuale di Öcalan per il suo popolo.

Nel comunicato finale l’ANC dichiara apertamente di “sostenere la lotta del popolo curdo per i diritti politici e umani e per la pace e la giustizia in Medio Oriente” chiedendo “a tutte le parti coinvolte di svolgere il proprio compito per una soluzione politica”.

Inoltre chiede “la liberazione di Abdullah Öcalan e di tutti prigionieri politici”.

Un sostegno esplicito e autorevole, provenendo da una delle organizzazioni che maggiormente hanno lottato contro il razzismo istituzionalizzato, contro la discriminazione e l’oppressione.

Un omaggio postumo all’impegno del compianto Essa Moosa, scomparso nel febbraio 2017. Moosa era stato l’avvocato sia di Mandela che di Öcalan, oltre che presidente del Kurdish Human Rights Group (KHRAG).

Gianni Sartori, dicembre 2017

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