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La guerra ad Afrin, una guerra contro i curdi, una guerra contro la libertà!

È con gli F-16 regalati da USA e Nato che lo Stato turco bombarda oggi la popolazione curda, nell’indifferenza e nel silenzio generale dell’Europa. Ma anche in passato la politica fascista e stragista dello Stato turco non ha mai risvegliato la minima reazione fra i ceti dirigenti delle democrazie occidentali. Riceviamo e condividiamo una nota di Gianni Sartori.

MA ALLORA… PER ANKARA L’UNICO CURDO BUONO È QUELLO MORTO?
di Gianni Sartori

Certo deve averne di coraggio l’accademico turco Ismail Besikci, a lungo imprigionato (circa 17 anni) per i suoi scritti sulla questione curda. Con le ultime dichiarazioni rischia quantomeno di rendersi ulteriormente inviso al regime turco.

Mi spiego. Alla domanda del quotidiano turco “Doraf” se “Afrin finirà come Kirkuk?”, l’autore di Doğuda Değişim ve Yapısal Sorunlar ha risposto senza esitazione: “Assolutamente no. Afrin è Kurdistan, con una popolazione di un milione di persone”. E ha poi aggiunto: “Sin dall’inizio della guerra civile in Siria, Afrin è stata la zona più sicura. Più di 400.000 siriani hanno trovato rifugio ad Afrin.

Per Besikci quella innescata da Ankara “è una guerra contro tutti i curdi e deve essere vista come una guerra contro il Kurdistan”.

Mentre anche in Turchia cresce il numero delle persone che la condannano (vedi i recenti arresti di chi aveva commentato negativamente i bombardamenti, vedi l’incriminazione dei medici, addirittura di una presentatrice televisiva…) la guerra operata dalla Turchia contro il nord della Siria prosegue, inesorabile, nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica mondiale.

Suscita particolare ribrezzo l’atteggiamento degli stati europei che hanno sicuramente beneficiato (l’Isis non ha certo risparmiato le metropoli europee) del sacrificio di centinaia di combattenti curdi caduti lottando contro i nuovi nazifascisti: Daesh & C.

Secondo Besikci “il presidente e il primo ministro stanno esercitando pressioni e la repressione contro la popolazione” per impedire non solo le proteste contro la guerra, ma anche che soltanto se ne parli (se non nei termini consentiti e stabiliti dallo Stato turco, naturalmente).

In passato era stato il regime siriano a cercar di arabizzare questa regione curda. Ora invece è la Turchia di Erdogan che con le bombe intende impedire il costituirsi di una entità curda autonoma. E tuttavia Besikci si dice convinto che questo non accadrà in quanto “i curdi non accettano che l’ingiustizia che gli è capitata a Kirkuk si verifichi anche in Siria”. Afrin verrà difesa perché qui la gente “difende il suo territorio” e “non ha abbandonato le case”. Non ripetendo a Afrin l’errore commesso a Kirkuk, ossia quello di dividersi.

MA CHI È ISMAIL BESIKCI?

Qualche precedente storico per rinfrescarvi la memoria su Ismail Besikci. Per molti anni fu “l’unica persona non curda che in Turchia parlava con voce forte e chiara in difesa dei diritti del popolo curdo” e nel 1987 venne proposta la sua candidatura al Nobel per la Pace (richiesta non accolta per timore delle reazioni turche).

Ricordo che nell’aprile del 1997 circolava un appello internazionale per la liberazione dell’accademico (sociologo) turco e per la libertà di espressione e ricerca scientifica in Turchia. Un appello lanciato da Noam Chomski e Harold Pinter e raccolto anche in Europa. Firmandolo si sottoscriveva una precisa richiesta al Parlamento europeo affinché operasse “in conformità alle proprie deliberazioni”. Auspicando che questo avvenisse soprattutto “per quanto riguarda le condizioni statuite per l’ammissione della Repubblica turca all’Unione europea”.

All’epoca Ismail Besikci stava scontando una condanna a ben 67 anni nel carcere di Ankara. Era stato dichiarato colpevole di “separatismo” in base all’articolo 8 della legge antiterrorismo: “Sono proibite la propaganda scritta e orale, le assemblee, incontri e manifestazioni che in qualunque modo tendano a distruggere l’unità indivisibile del territorio e del popolo, a prescindere dalle modalità, dalle intenzioni e dalle idee di chi le effettua”.

Era stato condannato per i suoi scritti in cui affrontava l’ideologia fondativa dello stato turco, il kemalismo, e gli aspetti sociali, culturali e politici della questione curda. Tra amnistie e periodici arresti, di anni in carcere ne ha già trascorsi almeno 17.

Le persecuzioni nei suoi confronti erano cominciate ancora nel 1967. In quell’anno aveva pubblicato I mutamenti sociali delle tribù nomadi curde in Anatolia orientale. Gli venne vietato di proseguire le sue ricerche e il suo lavoro venne bandito. Fu radiato dal registro dei docenti delle università di Erzurum e di Ankara e allontanato dal suo incarico di docente aggiunto di sociologia. I suoi articoli e libri furono censurati, proibiti e confiscati. Contro di lui, a partire dal 1971, erano stati avviati un centinaio di processi ed era stato condannato a 67 anni di carcere.

La sua colpa? Il fatto di essere uno dei rari accademici che mettevano in discussione l’ideologia kemalista e la politica dello stato turco nei confronti della popolazione non-turca.

Ricordo che il partito CHP (Cumhuriyet Halk Partisi – Partito popolare repubblicano, all’opposizione rispetto a Erdogan), considerato da qualche “antimperialista” nostrano come “di sinistra” (socialdemocratico), ha raccolto in pieno l’eredità del kemalismo. Non a caso il CHP ha dato il suo sostanziale sostegno alla brutale aggressione dei militari turchi contro Afrin. Aggiungo: nel silenzio-assenso di alcuni nostrani “antimperialisti” speculare a quello istituzionale degli Stati.

Dalla sua fondazione da parte di Mustapha Kemal (Ataturk), la Repubblica turca non si è fermata nemmeno di fronte al genocidio. Prima con lo sterminio di 1.500.000 armeni e le deportazioni di massa, poi con la distruzione dei villaggi, le torture e le sparizioni dei “soggetti indesiderabili” nella guerra anti-curda.

Il 16 settembre 1996 la Corte europea per i diritti umani aveva condannato la Turchia per la distruzione dei villaggi curdi e altri 46 simili procedimenti di accusa venivano successivamente consegnati alla stessa Corte di Strasburgo dalla Commissione europea per i diritti dell’uomo.

Con i suoi libri e i suoi articoli Ismail Besikci difendeva, in base al diritto all’autodeterminazione, la legittimità della resistenza all’oppressione. Agli occhi delle autorità turche questo lo aveva reso colpevole del reato di “terrorismo”. Sempre negli anni novanta il governo turco era stato costretto dalla pressione dei paesi europei a sopprimere gli articoli 141 e 142 del codice penale (“sanzioni per propaganda mirante a distruggere il sentimento nazionale”) su cui si basavano i verdetti più pesanti contro Besikci. A queste norme però si sostituiva l’articolo 8 della Legge anti-terrorismo che rende penalmente perseguibile ogni tipo di critica all’ideologia dello stato turco.

In pratica – scriveva nel 1997 Noam Chomski – questo significa abolire la libertà di espressione e la ricerca scientifica”.

Nell’appello internazionale del 1997 si ribadiva anche che “tutti gli sforzi sul terreno dei diritti e delle libertà civili saranno vani senza la fine della guerra contro la popolazione curda” e si chiedeva al Parlamento europeo di “usare tutti gli strumenti a sua disposizione per contribuire a una soluzione politica del conflitto”. Da allora le cose non sono cambiate, forse peggiorate, temo. La “questione curda” rimane irrisolta e di conseguenza la mancata democratizzazione della Turchia. E non solo della Turchia, ovviamente. Lasceremo che la soluzione sia quella messa in campo da Erdogan e dai suoi complici internazionali?

Gianni Sartori

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