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Libertà per Abdullah Ocalan e per tutti i prigionieri politici curdi

Vent’anni fa Abdullah Ocalan veniva rapito e imprigionato anche con la complicità del governo italiano dei D’Alema e dei Bertinotti. In questi mesi sono state ampie e coraggiose le mobilitazioni per la sua liberazione. Ieri, cinquemila persone hanno sfilato a Roma per la liberazione di tutti i prigionieri politici curdi e in sostegno alla rivoluzione del confederalismo democratico. Riceviamo e condividiamo un intervento al riguardo di Gianni Sartori.

1999-2019: FINALMENTE SI TORNA A PARLARE DI OCALAN (ma ora non dimentichiamolo per altri vent’anni)
di Gianni Sartori

Articoli di giornale, manifestazioni, appelli…

Grazie soprattutto al sacrificio dei militanti curdi – da mesi ormai in sciopero della fame – l’opinione pubblica è tornata a sentir parlare di Ocalan.

Bene, era ora. Ma sapendo come vanno le cose (passata la festa, gabbato lo santo…) sarebbe il caso di insistere. Altrimenti rischiamo di rivederlo in libertà magari tra un altro decennio, ben che vada.

Intanto vediamo di ripassare la questione rievocando il contesto e le circostanze del suo drammatico peregrinare in cerca di asilo politico. Vicenda conclusasi con il sequestro-rapimento a Nairobi.

Alla fine del 1998 la mobilitazione suscitata dall’arrivo a Roma di Abdullah Ocalan (leader del Partiya Karkeren Kurdistan-Partito dei lavoratori del Kurdistan) apparve come la naturale conclusione di un processo iniziato mesi prima. Il 28 agosto 1998 Ocalan aveva annunciato una tregua da parte curda; lo aveva fatto dopo esplicite proposte ricevute dai vertici dello stato turco attraverso intermediari qualificati (esiste in proposito una precisa documentazione). Tuttavia, dopo l’iniziale interesse dimostrato dalle autorità turche, ben presto subentrava un rinnovato atteggiamento bellicista. Forse – ipotizzo – un “effetto collaterale” del viaggio in Israele dell’allora premier turco Mesut Yilmaz. Appariva chiaro infatti che la questione implicava accordi ed interessi internazionali ben oltre lo storico contenzioso tra stato turco e popolo curdo. Il 28 ottobre, attraverso il suo portavoce in Europa, Kani Yilmaz (nessuna parentela con il premier turco, ovviamente), il PKK aveva dichiarato che “essendoci state delle proposte formali da parte turca, la leadership curda aveva il dovere di verificarle, anche se è apparsa chiara fin dai primi giorni l’insincerità dello stato turco e la sua volontà di usare il cessate il fuoco curdo all’interno di una tattica dilatoria, tenendo contemporaneamente costante l’opzione militare”.

Nei messaggi pervenuti a esponenti della resistenza curda e presentati a Roma dal portavoce del PKK, Ankara si impegnava a garantire l’agibilità politica del PKK; a verificare gli errori commessi da entrambi i contendenti ed in particolare l’inasprimento della repressione dopo il 1993; a dare spazio ad una assunzione di responsabilità da parte del PKK e delle forze di opposizione nel processo di cambiamento dello stato. La Turchia diceva anche di voler assumere un atteggiamento positivo nei confronti di alcune richieste (definite plausibili) avanzate dal PKK come il blocco delle operazioni militari da parte dell’esercito turco e lo scioglimento dei corpi paramilitari in vista di una soluzione politica e pacifica della questione curda. Si prospettava lo svolgimento pacifico e veramente democratico di elezioni (con la garanzia di osservatori internazionali) e la possibilità di una amnistia generale per i prigionieri politici. Addirittura si evocava la possibilità di un incontro dei vertici militari turchi con Ocalan. Ma si trattava – sostanzialmente – di una trappola.  Nonostante da parte dei curdi venissero rispettati gli impegni di tregua, la Turchia sceglieva ancora una volta la via repressiva e militare: almeno 15mila soldati turchi penetravano nel Kurdistan sud (in territorio irakeno) in vista di una ennesima offensiva anticurda. Era la medesima tattica adottata dal governo turco nel ’93 e nel ’96, in occasione di due tregue unilaterali annunciate dal PKK. Appariva evidente che il fallimento del “cessate il fuoco” era imputabile soprattutto alla non volontà di dialogo della Turchia. Nel frattempo si intensificavano le operazioni repressive contro vari organismi curdi. Veniva chiuso il quotidiano Ulkede Gundem, devastate le sedi del partito legale Hadep (i cui dirigenti, da tempo in carcere, erano in sciopero della fame) e centinaia di persone venivano fermate o arrestate. In particolare il leader del PKK Ocalan diventava bersaglio di una politica di annientamento fisico. All’attacco contro Ocalan il popolo curdo sapeva reagire con determinazione, sia con manifestazioni di protesta che con nuove lotte nelle carceri (dove si trovavano rinchiusi circa diecimila prigionieri politici e di guerra curdi). Nel mese di ottobre 1998 ben diciassette di loro si davano fuoco. Sei di loro perdevano la vita mentre altri sette venivano ricoverati in ospedale con gravissime ustioni. Il 20 ottobre 1988 altri due curdi, imprigionati perché membri del PKK, morivano carbonizzati nel carcere di Midyat durante una protesta contro le disumane condizioni detentive. Altri tre perdevano la vita in tre diverse prigioni turche. In fin di vita anche il prigioniero curdo Mehemet Aydin che si era dato fuoco il 13 novembre. Nei giorni successivi un’altra decina di prigionieri curdi tentavano il suicidio per protestare contro le minacce di estradizione per Ocalan. A questi se ne aggiungevano altri tre (due a Mosca e uno a Roma, rispettivamente il 17 e il 18 novembre) che si erano dati fuoco dopo essersi cosparsi di benzina. E la repressione turca intanto imperversava. Soltanto il 17 ottobre, alla manifestazione delle “Madri del sabato” organizzata dai parenti degli scomparsi (i “kayiplar”, migliaia ormai), si registravano più di cinquecento arresti. Ma questi fatti clamorosi potrebbero aver oscurato un gran numero di episodi considerati, a torto, minori. Ne riporto solo un paio riguardanti minorenni e da cui emerge tutta la brutalità del regime turco nei confronti del popolo curdo.

In una conferenza stampa tenuta dalla Human Right Association la madre di un handicappato mentale ha accusato pubblicamente due agenti di aver torturato suo figlio a Istanbul il 13 settembre 1998. Il ragazzo, Metin Caglayan, era stato arrestato mentre giocava in strada e quindi trascinato in una cella della stazione di polizia.

Pochi giorni prima, il 7 settembre, quattro ragazze di età compresa fra gli 11 e i 15 anni venivano arrestate nei pressi di Izmir perché indossavano abiti rossi, gialli e verdi (i colori della bandiera curda). Secondo il quotidiano Radikal le ragazze stavano organizzando uno spettacolo di beneficenza. Inoltre tra il 16 e il 22 novembre 1998 – nel corso delle retate contro gli esponenti del partito Hadep – finivano in carcere circa 2.700 persone. Due militanti arrestati (Metin Yurtserver e il diciottenne Halit Cakir) morivano a causa delle percosse subite.

Normale amministrazione per il popolo curdo che da anni patisce torture, squadroni della morte, leggi di emergenza.

Una situazione di brutale repressione e controllo sociale che non riguarda solo i curdi, ma anche ampi settori delle classi popolari turche e da cui hanno tratto consistenti benefici i nostri industriali. Sono più di cinquemila le imprese italiane installate in Turchia dove usufruiscono dei sottosalari turchi, della repressione antisindacale (vedi – sempre alla fine degli anni novanta – il caso della Fiat dove almeno duecento operai turchi venivano licenziati per aver lasciato il sindacato ‘giallo’ di regime Turk Metal ed essersi iscritti al Birlesik Metal-is) e del lavoro minorile (almeno tre milioni di bambini sfruttati soprattutto nelle aziende del campo tessile e del vestiario). La maggior parte dei minori che all’epoca lavoravano per Benetton (vedi il caso della Bermuda Tekstil) erano figli di profughi curdi, arrivati nelle metropoli turche dopo la distruzione dei loro villaggi.

È tempo – scrivevo già allora – che anche l’opinione pubblica italiana reagisca adeguatamente, prima che questo secolo, apertosi con il genocidio armeno, si concluda sulle stesse terre con il genocidio dei curdi. Ripensando a quello che è stato fatto contro il regime sudafricano dell’apartheid bisognerebbe denunciare e boicottare tutti coloro (Benetton, Fiat, Turbanitalia, gli orafi veneti…) che con le loro attività commerciali contribuiscono a mantenere in vita il regime fascista di Ankara; fermare almeno l’esportazione di armi dall’Italia verso la Turchia*. Sarebbe anche necessario che nuove delegazioni di parlamentari, giuristi, giornalisti, esponenti di associazioni in difesa dei diritti umani si recassero in Turchia per denunciare la logica di sterminio applicata contro i dissidenti nel circuito carcerario turco. Inoltre le vittime di questa politica criminale che giungono in Italia andrebbero trattate come profughi di guerra, una sporca guerra genocida di cui anche noi dobbiamo sentirci responsabili”.

A venti anni di distanza sostanzialmente sottoscrivo e ribadisco.

Ma intanto proseguiva il peregrinare di Ocalan e la vicenda si avviava verso il noto, drammatico e vergognoso epilogo.

Come già detto, di fronte all’intransigenza turca e vedendo le pressioni subite dal governo siriano, Ocalan e altri dirigenti del Pkk rifugiati in Siria e in Libano avevano cercato di avviare un dialogo con la controparte. Ma invano. Ankara andava ammassando truppe al confine con la Siria e interrompeva il flusso delle acque proveniente dalla diga di Ataturk. Nonostante il vero e proprio assedio, Damasco si rifiutò di consegnare Ocalan alla Turchia. Tuttavia il 9 ottobre 1998, dopo quaranta ore di negoziati ininterrotti, accettò di siglare un accordo con cui si impegnava a sospendere ogni appoggio al Pkk. Lo stesso giorno Ocalan volava a Mosca dove il primo ministro russo rifiutò di concedergli l’asilo politico.

Il 12 novembre 1998 sbarcava a Roma. Con lui sull’aereo il responsabile degli Esteri di Rifondazione Comunista, Ramon Mantovani, e il rappresentante in Italia dell’Ernk (Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan) Ahmet Yaman. È accertato che in un primo momento il premier Massimo D’Alema aveva garantito – a Bertinotti – il suo interessamento per concedere al militante curdo l’asilo politico. Le ripetute ingerenze di Washington gli faranno cambiare non solo atteggiamento, ma anche linguaggio. Quello che inizialmente aveva definito “leader curdo” diventerà un generico “signor Ocalan” per finire con “il terrorista Ocalan”. Alla fine, nonostante l’impegno allo stremo del compianto Dino Frisullo e l’arrivo a Roma di migliaia di curdi della diaspora, Ocalan dovrà andarsene.

Il 29 gennaio 1999 è in Grecia da dove viene immediatamente inviato in Kenya presso l’ambasciata ellenica di Nairobi. Essendo nota la disponibilità di Nelson Mandela, gli viene fatto credere che sarà portato in Sudafrica. Invece il 15 febbraio viene sequestrato e rapito da agenti mascherati (presumibilmente turchi, ma si parlò della partecipazione di servizi segreti di altri paesi).

Come concludere? Forse ricordando ai governanti turchi e ai loro alleati (tanto occidentali che mediorientali) che per una decente soluzione politica del conflitto turco-curdo la partecipazione diretta di Ocalan ai negoziati è assolutamente necessaria. Così come nel Sudafrica del secolo scorso la fuoriuscita dall’apartheid era impensabile senza il contributo attivo del prigioniero Nelson Mandela, il leader dell’African National Congress (ANC).

Gianni Sartori

*nota 1 Qualche dato sui rapporti intercorsi alla fine del secolo scorso (ma attualmente la situazione non è cambiata di molto) tra Italia e Turchia in materia di export di armi. Armi utilizzate soprattutto contro gli insorti curdi.

Nel 1990 il Parlamento italiano approvava la legge 185 sul commercio delle armi che vietava la vendita verso paesi in stato di conflitto armato, verso paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della nostra Costituzione e verso paesi i cui governi si siano resi responsabili di accertate violazioni dei diritti umani. Anche se la Turchia rientrava – e rientra – sicuramente in questi parametri, non mancavano le scappatoie. Per esempio le procedure della 185 non si applicano rigidamente ai materiali di alcuni settori, come l’aeronautica e la missilistica, considerati a doppio uso, sia civile che militare. In base alla legge 222 del 1992 vengono classificati come “materiali ad alta tecnologia” e la loro esportazione viene liberalizzata verso i paesi industrializzati (vedi decreto novembre 1993 del ministero del Commercio estero).

All’epoca – fine anni novanta – si era parlato insistentemente della possibile vendita di un’azienda italiana produttrice di armi (la “Bernadelli spa” di Gardone Val Trompia) a imprenditori turchi. Chissà com’era finita, poi.

E intanto la Oto Breda si candidava per la vendita alla Turchia di un migliaio di carri armati e l’Agusta di altrettanti elicotteri antiguerriglia.

Tutto questo per dire che in fondo bisognava aspettarselo. Ocalan non poteva trovare ospitalità in Italia se non mettendo a rischio la notevole e proficua mole di affari tra Roma e Ankara.

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