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Per Igor e tutti i ragazzi torturati e uccisi dal potere

Riceviamo e condividiamo un frammento di memoria storica di un tempo insieme lontano e vicino. In ogni angolo di questo paese resta traccia di tante violenze del potere rimosse e dimenticate. Ricordare la barbarie di ieri vuol dire prepararsi a combattere quella che abbiamo di fronte.

VITTIME DIMENTICATE NEL BASSO VICENTINO
di Gianni Sartori

Il paesaggio del Basso Vicentino che si può contemplare dall’alto dei Colli Berici – per esempio dalla Croce di Lumignano – ha subito negli ultimi vent’anni vistose trasformazioni. O meglio, deturpazioni.

Al posto dei grandi pioppi incolonnati lungo le strade, delle folte siepi di opio (acero campestre) o di quelle – più raffinate – di carpino, oggi come oggi è tutto un dilagare irrefrenabile di capannoni (per non parlare della inquinatissima – metalli pesanti – A31 con tutto il suo accompagnamento di complanari, bretelle e rotatorie).

Entrambi comunque, le ecologiche siepi e i devastanti capannoni, potrebbero aver contribuito a celare una miriade di drammi dimenticati o rimossi.

Grandi e piccoli, hanno comunque segnato questa contrade. Apparentemente, ma solo apparentemente, pacifiche e un tempo bucoliche.

Qualche pro-memoria.

La morte atroce di Paolo Floriani, un ragazzino del campo nomadi di viale Cricoli annegato nel Bacchiglione. A Debba, novembre 1987. Inseguito, braccato, aveva attraversato a nuoto il fiume – sicuramente gelido in quella stagione – ben quattro volte per sfuggire alla polizia.

Oppure, lo avevo già scritto anche qui mi pare, il calvario della bambina ebrea Sara Gesses a Vo’ Vecchio (tecnicamente in provincia di Padova, ma solo per qualche centinaio di metri), riconsegnata ai nazifascisti – dalle suore – dopo che la mamma era riuscita a nasconderla.

Non ho invece potuto risalire al nome di un ragazzo russo massacrato dai soldati tedeschi a Monticello di Barbarano. Secondo Aldo Viero avrebbe potuto chiamarsi “Igor”, ma era più che altro una sua ipotesi, non una certezza.

Una premessa sulla mia fonte. Aldo Viero, scomparso un paio di anni fa, lo incontravo durante i miei soliti giri in bicicletta. Sempre intento a sistemare il Parco degli Olmi che aveva ideato e – con l’aiuto dei vicini – sistemato e attrezzato alle pendici del Monticello. Tra gli alberi piantati, olmi appunto, il capitello della Madonna, alcune panchine, le sagome appese ai rami, mosse dal vento, di uccelli e farfalle e quelli veri, talvolta nidificanti. Un ambiente sereno e piacevole, ottimo per una sosta ombrosa. Mi aveva riferito della consistente presenza di soldati tedeschi nella villa con parco (oggi Villa Traverso Pedrina) che sorge tuttora davanti alla sua casa. Aumentati a dismisura soprattutto negli ultimi mesi di guerra. Quando la sconfitta appariva ormai scontata e – forse anche per questo – frustrati e incattiviti ancora più del solito. Raccontava di quando, ragazzino di dieci anni – diventato suo malgrado la mascotte della truppa – era riuscito a entrare nel deposito-viveri. Per uscirne con gli abiti “imbottiti” di tabacco che aveva trafugato. Scoperto da un soldato aveva rischiato grosso, ma poi il tedesco, impietosito, lo lasciò andare. I suoi familiari avrebbero ricambiato tenendolo nascosto per qualche giorno nell’aprile del ’45. Quando la disfatta era totale e qualche rappresaglia partigiana contro gli occupanti sarebbe stata comprensibile.

Ma il fatto che ancora lo turbava, di cui parlava con grande difficoltà era appunto la storia del ragazzo russo.

Forse stavano mettendo in pratica il progetto nazista di utilizzare la metà degli “slavi” come manodopera – schiavi o servi della gleba – nelle terre occupate (dopo averne sterminato l’altra metà). Infatti si erano portata appresso una famiglia russa – sequestrata durante la ritirata – per utilizzarla nei lavori pesanti. Oltre al padre e alla madre, anche un ragazzo di forse 14 anni, già alto e molto robusto. Una sera si erano ubriacati più del solito e andarono a prenderlo – così mi raccontava Viero – per portarlo al centro della sala pretendendo che gridasse “Abbasso Stalin” e “Stalin maiale” (in tedesco o in russo, non saprei…). Il ragazzo si rifiutava, non parlava e stringeva i pugni per non scoppiare a piangere. Cominciarono a prenderlo a sberle, poi a pugni. Quando cadde sul pavimento iniziarono con i calci, massacrandolo, rendendolo (così narrava con voce alterata dall’emozione Aldo) come “una poltiglia”. Al punto che il cadavere ridotto a brandelli sarebbe stato gettato in qualche fossato e nemmeno seppellito.

Tutto qui. Mi pare che basti. Una “piccola storia ignobile” destinata al dimenticatoio come chissà quante altre. Migliaia, milioni di vittime anonime e innocenti, travolte – oltre che dalla furia della guerra – dall’abiezione di ideologie totalitarie e razziste come appunto quella nazifascista.

Gianni Sartori

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