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Secondo Amnesty International la Turchia ha commesso crimini di guerra nel Nord della Siria

Riceviamo e condividiamo un intervento di Gianni Sartori sul terribile gioco delle parti con cui i grandi potentati internazionali cercano di soffocare la rivoluzione del Rojava. Domani 19 ottobre tutte e tutti in piazza, a Bologna e ovunque!

SECONDO AMNESTY INTERNATIONAL LA TURCHIA HA COMMESSO CRIMINI DI GUERRA NEL NORD DELLA SIRIA
di Gianni Sartori

La denuncia – 18 ottobre – proviene da Amnesty International. Nel suo rapporto A.I. accusa l’esercito turco e i suoi alleati (o meglio: i suoi ”ascari”) di aver commesso molteplici crimini di guerra nel corso dell’offensiva in atto (una vera e propria invasione della Siria). In particolare, esecuzioni sommarie e attacchi indiscriminati contro i civili. A cui bisognerebbe aggiungere l’utilizzo di armi proibite dalla Convenzione di Ginevra.

La ONG riporta le testimonianze di 17 persone (operatori sanitari, giornalisti, sfollati, esponenti di organizzazioni umanitarie…) che hanno appunto visto – e documentato – di persona quanto stava avvenendo.

Un esponente della Croce Rossa curda racconta di aver recuperato i cadaveri lasciati sul terreno – in prossimità di una scuola – dall’attacco turco del 12 ottobre sulla cittadina di Salhyé. Qui avevano trovato rifugio alcuni sfollati. Spiega di “non poter nemmeno dire se i bambini uccisi erano maschi o femmine perché i loro corpi erano completamente anneriti, carbonizzati”.

Emergono intanto altri particolari sulla sequenza di menzogne, una trappola vera e propria in cui i curdi si sono cacciati – forse ingenuamente – per essersi fidati di un “alleato” senza scrupoli, gli Stati Uniti.

Innanzitutto gli USA avevano convinto le YPG (genericamente definite “curde”, in realtà una coalizione multietnica composta da combattenti di varie etnie e religioni presenti nei territori del nord-ovest siriano, oltre che dai volontari internazionalisti) a distruggere i tunnel difensivi alla frontiera con la Turchia. Garantendo che Washington avrebbe comunque impedito ad Ankara di invadere il Rojava. Nell’accordo, un ulteriore malcelato inganno: consentire a USA e Turchia di sorvolare l’area per controllare l’effettiva distruzione di tunnel e postazioni difensive. In realtà questo ha permesso ai turchi di conoscere in anticipo quali fossero i principali ostacoli e possibili punti di resistenza al momento dell’attacco.

Con l’invasione del Rojava – mentre si percepiva quanto sarebbe stata brutale e indiscriminata – forse Trump ha temuto di rimetterci sul piano elettorale. Ha quindi inviato al suo omologo turco una risibile lettera in cui gli spiegava che comunque avrebbero dovuto trovare un accordo e soprattutto di “non fare l’idiota” (testuale). Concludendo che comunque si sarebbero risentiti. Ovviamente Erdogan non l’ha neanche presa in considerazione proseguendo imperterrito. Nel suo programma, una radicale pulizia etnica della “zona di sicurezza”, profonda 30 chilometri e sostanzialmente svuotata di ogni presenza curda. Da sostituire con 2-3 milioni di rifugiati siriani fedeli a Erdogan e al momento ospitati in Turchia.

Già con i primi bombardamenti sulle città e sui villaggi curdi si creavano lunghe colonne di profughi (circa 300mila) in fuga. In avanscoperta, le milizie – sospettate di simpatie jihadiste – dell’Esercito nazionale siriano (in precedenza denominato Esercito siriano libero) che da subito cominciavano a saccheggiare e giustiziare indiscriminatamente. Suscita scalpore l’efferata uccisione il 12 ottobre di Hevrin Khalaf (35 anni, segretaria generale del Partito del futuro siriano), presumibilmente stuprata e lapidata. Tale assassinio di una nota pacifista viene festeggiato dai media turchi come una “vittoria contro il terrorismo”.

Intanto la Turchia si preoccupava di rimettere in circolazione le milizie di Daesh (più affidabili del raffazzonato ENS) ancora detenute nelle prigioni controllate dai curdi (a volte semplici palestre, oltretutto controllate da civili). Cominciando quindi a bombardare i muri e i cancelli dei campi di detenzione per consentire la fuga di centinaia di miliziani e loro familiari (solo una parte dei circa 80mila catturati dalle YPG).

Una parentesi. Esponenti della destra dichiarata, diversi rosso-bruni e qualche “antimperialista” di sinistra (in genere filo-Assad e filo iraniani) hanno accusato i curdi, oltre che di collaborazionismo con l’imperialismo statunitense, di aver praticato forme di “pulizia etnica” in Rojava. Demenziale. Anche trascurando i 40mila yazidi salvati dai combattenti curdi nel Sinjar (e i cristiani, anche un villaggio turcomanno…), basti pensare che nemmeno i peggiori miliziani islamisti (e tantomeno le loro famiglie) sono stati eliminati fisicamente dopo la cattura. Come invece, sotto sotto, auspicavano Stati Uniti e paesi europei poco propensi a riprendersi i loro cittadini – i foreigni figthters – divenuti miliziani dello Stato islamico.

Col senno di poi (e pensando ai civili assassinati da questi tagliagole una volta tornati in libertà) verrebbe da pensare che ’sti curdi sono stati fin troppo buoni.

Già che c’era, forse ritenendo che gli statunitensi se la stavano prendendo troppo comoda nel ritirarsi da Kobane, l’esercito turco sparava anche su un avamposto a stelle e strisce. La cosa funziona e il giorno successivo Trump annuncia un ritiro completo e definitivo. Prima di andarsene gli statunitensi si autobombardano. Rendendo inagibili i loro avamposti e basi, mentre quelli rimasti in piedi verranno occupati dalla Russia. L’impressione è comunque di un piano concordato (o sottinteso) tra USA, Turchia, Russia (forse anche Teheran e Damasco) ai danni dei curdi. Sempre scomodi, se non superflui, ai piani strategici di stati e affini.

Scontato il rifiuto – sia di Washington che di Mosca – della richiesta di “interdizione aerea” avanzata dai curdi. I quali, ovviamente, non dispongono di contraerea.

Nonostante i tentativi statunitensi per impedirlo (temendo che con i siriani arrivino anche i detestati pasdaran iraniani o gli hezbollah libanesi: l’ossessione ricorrente del “ponte sciita”), le truppe di Assad entrano in Manbij.

Tergiversando ed entrando in contraddizione con quanto finora dichiarato, gli Stati Uniti annunciano che in realtà potrebbero anche restare, almeno per proteggere Kobane (e soprattutto i campi petroliferi di Deir ez-Zor). Un bel casino!

Mentre Trump comincia – o continua – letteralmente a delirare (vedi le affermazioni sui curdi che non avrebbero “aiutato gli stati Uniti al momento dello sbarco in Normandia”), il Congresso americano impone blande sanzioni alla Turchia per convincerla a sospendere l’invasione.

I curdi comunque resistono e contrattaccano riconquistando, almeno provvisoriamente, la città di Sere Kaniye che era caduta nelle mani dell’Esercito nazionale siriano e dei turchi. La situazione è tale che a un certo punto Ankara si vede costretta a chiudere i varchi del muro di frontiera – ora alle sue spalle – per impedire ai miliziani jihadisti di fuggire in Turchia. Inoltre, temendo di venir respinto, l’esercito turco comincia a fare uso sui campi di battaglia di sostanze chimiche proibite.

Trump invia allora da Erdogan il vicepresidente Pence per concordare un generico “cessate-il-fuoco”. Ma senza concordarlo, almeno in un primo tempo, direttamente anche con i curdi, la Russia e Damasco. Di nuovo, un gran casino!

Ai curdi viene “offerta” una via d’uscita: sostanzialmente battere in ritirata per una profondità di trenta chilometri dalla frontiera (la solita “zona di sicurezza”) nel giro di cinque giorni. In pratica, una “pulizia etnica” ottenuta dalla Turchia volontariamente e senza incontrare resistenza. Solo successivamente, toccherebbe alla Turchia di lasciare il suolo siriano, Afrin (nord-est della Siria, già invasa all’inizio del 2018) compresa. Per il giornalista Ferda Cetin, esperto di Medio Oriente, tale accordo USA-Turchia non sarebbe altro che “una legalizzazione dell’occupazione del Rojava da parte dell’Isis e di Ankara”. Alquanto probabile, direi.

Del resto già il 17 ottobre, alla faccia del cessate-il-fuoco, altre decine e decine di pullman carichi di miliziani dell’Esercito nazionale siriano  partivano da Kilis in direzione di Gaziantep per dare ulteriore man forte alle truppe turche. Staremo a vedere.

E i curdi? Per loro si profila un probabile destino di “profughi interni” in Siria. Così come per altri componenti della coalizione multietnica (arabi, circassi, assiri, armeni, siriaci…) che vivevano – e spesso combattevano – insieme ai curdi nel nord della Siria. E alquanto incerto appare il destino dei volontari internazionali (pensiamo in particolare ai comunisti turchi) che si erano integrati nella resistenza curda. Manca solo che Erdogan ne richieda l’estradizione!

Gianni Sartori

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