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Rossobruni e trotskisti contro la rivoluzione curda del Confederalismo democratico

Oggi come ieri, inquinare fino all’ultimo pozzo della prospettiva rivoluzionaria è un compito perseguito da una pluralità di varianti ideologiche rossobrune, autoritarie, neonazionaliste o nazionalproletarie, proiettate più o meno consapevolmente nell’apologia del Potere e pronte all’uso se mai dovessero nuovamente tornare utili ai ceti dominanti.

Ma è più che evidente che non ci si potrà liberare dalla gerarchizzazione sociale e dal neocolonialismo finanziario senza sviluppare concreti percorsi di autorganizzazione e di trasformazione radicale della società. Che non si potrà sconfiggere il fascismo crescente in Europa e nel mondo senza costruire forme di autogoverno, di autonomia e solidarietà aperta e plurale.

Riceviamo e volentieri condividiamo un intervento sulle critiche “da sinistra” alla rivoluzione curda del Confederalismo democratico.

MA CHI SPARA, ANCHE SOLO METAFORICAMENTE, SUI CURDI…
LO SA COSA STA FACENDO?

di Gianni Sartori

Sinceramente. Mi ero ripromesso di non partecipare, possibilmente nemmeno assistere, alle polemiche anti-curde seminate in rete da certi soidisant anti-imperialisti. Talvolta di destra, sia dichiarata che mascherata (rosso-bruni), ma altre volte anche, mon dieu, di sinistra… Di sinistra? Ma sì, diciamolo pure, talvolta anche di sinistra (del resto… abbiamo visto anche di peggio, a sinistra, vera o presunta).

Polemiche che stanno amareggiando la mente e il cuore di chi deva assistere suo malgrado a questa indecente propaganda anti-curda e, in secondo ordine, anti-libertaria.

Prese di posizione quantomeno sospette, fondamentalmente pretestuose. Polemiche che si autoalimentano con il “botta e risposta”. Meglio non concimarle, mi dicevo. Meglio non farsi trascinare nel fango e nel tanfo.

Offese incomprensibili e gratuite (cui prodest?) nei confronti di chi sta in prima linea contro il neofascismo (islamico e non). Come quelle in merito alla partecipazione di anarchici (elegantemente definiti “piccoli delinquenti”), libertari e perfino lesbiche (ma Ivana Hoffman, andata a morire eroicamente contro l’Isis, cos’era?) alle nuove brigate internazionali che combattono a fianco dei curdi contro l’Isis.*

Nel testo di un autoproclamato “osservatorio anticapitalista” si coglieva l’occasione per evocare, maldestramente, lo spettro del povero Mackno accusato nientemeno che di “sionismo” (nel 1920-21?). Dovrebbero spiegarsi meglio, visto che uno dei loro teorici di riferimento, Leon Trotski, aveva ripetutamente accusato il “bandito Nestor Mackno” di “antisemitismo”. Delle due l’una. O forse nessuna. Magari ci ritorneremo su.**

VADA PER I ROSSO-BRUNI, MA ORA ANCHE I TROTSKISTI D.O.C. …?

Ma c’è un limite a tutto. Dopo le variegate insulsaggini sparse al vento (in particolare su curdi e anarchici) da siti irrilevanti, sostanzialmente autoreferenziali, a farmi desistere dal sano proposito di non immischiarmi è stato un intervento, peraltro gentilmente speditomi dagli interessati, del PDAC (sezione italica della LIT-Quarta Internazionale). Qui i Curdi del Rojava vengono accusati sostanzialmente di non essersi opposti abbastanza al regime di Assad e anche (udite-udite!) di aver conservato una struttura “stalinista-maoista” sostanzialmente gerarchica, autoritaria. Quasi un imprevisto richiamo alla democrazia diretta e allo spirito libertario.

Provenendo dagli epigoni di chi ha poco elegantemente “buttato nella spazzatura della Storia” i marinai di Kronstadt e i macknovisti farebbe un po’ sorridere anche se amaramente…

Metodi talvolta “autoritari” quelli adottati da YPG e PKK?

Perfino quelli della Colonna Durruti nel bel mezzo di un conflitto come quello del 1936-39 in Spagna, si videro talvolta costretti a usare metodi non filologicamente “democratici”. Ma i miliziani anarchici si trovavano nel mezzo del ferro e del fuoco di una guerra di liberazione, come appunto i curdi in Rojava e Bakur.

E sappiamo bene come si comportano i reazionari in caso di vittoria: dai massacri indiscriminati di cui furono vittime i comunardi a quelli operati da Franco nel lungo dopoguerra, quello è il loro stile.

Non è di secondaria importanza che entrambi (sia gli antifranchisti che i curdi) stessero e stiano, rispettivamente, operando comunque per il superamento di una società fondata sullo sfruttamento, sull’oppressione, sulla gerarchia, sostanzialmente sul potere (di capitalisti, burocrati, commissari politici o cekisti).

Nello stesso articolo diffuso dal PDAC si ironizza sulla, virgolettata da loro, “democrazia di base” in Rojava riprendendo un’intervista a Joseph Daher (un sostenitore dei “ribelli” siriani anti-Assad).

Con argomenti analoghi a quelli già utilizzati dal sopracitato “osservatorio anticapitalista” (magari con intenti diametralmente opposti), i trotskisti nostrani mostravano di condividerne il sostanziale disprezzo per il Confederalismo democratico adottato dalla resistenza curda. Vagamente surreale poi l’accusa al PYD di aver esautorato i consigli (l’equivalente dei soviet) che prima comunque in Rojava quasi non esistevano (se non come aspirazione, tendenza tradizionale all’autogoverno delle popolazione locali).

Ovviamente i compagni della LIT-Quarta Internazionale per me rimangono sempre tali (dal mio modesto punto di vista, sostanzialmente ecumenico).

Ma non posso fare a meno di sottolineare come la loro accusa nei confronti dei curdi (quella di non essersi opposti abbastanza al regime siriano di Assad) sia diametralmente opposta alla condanna senza appello già emessa dal severissimo “osservatorio anticapitalista”. In questo caso di non essersi decisamente schierati al fianco di Assad (a torto o a ragione ritenuto baluardo dell’antimperialismo e antisionismo).

Forse qualcuno (mi consolo: non solo io) ha le idee un tantino confuse.

Qualche precisazione. Le brigate di ispirazione anarchica e libertaria operanti in Rojava (e anche in Bakur) sono organiche a quelle dei marxisti-leninisti turchi del MLKP (comunisti, fino a prova contraria) a cui si deve la costituzione nel 2015 della Brigata Internazionale della Libertà (in collaborazione con le Forze unitarie per la Libertà, il fronte rivoluzionario MLSPB e Reconstruccion Comunista, quest’ultima spagnola). Quindi, perché polemizzano solo con le componenti libertarie? Cos’è? Coazione a ripetere?

Sia chiaro. Se la fossero presa soltanto con gli anarchici, avrei lasciato perdere. Non sono anarchico e credo non serva loro un avvocato d’ufficio (peraltro non gradito, temo).

Inoltre, forse per ragioni anagrafiche, non coltivo più troppe speranze sui “domani che cantano”. Eppure, quando qualcuno ci prova a rimettere in discussione lo “stato di cose presente” (e il suo indispensabile corollario: lo Stato) non posso che augurargli la vittoria. Resto poi convinto che un giorno, magari tra cento o mille anni, di molti Stati, sistemi economici, ideologie e ovviamente anche religioni, perfino il ricordo sarà disperso nel vento. Resteranno invece, non ho dubbi, i Popoli. Alcuni almeno, quelli che faticosamente hanno saputo sopravvivere come Nazioni anche senza Stato.

I Curdi, appunto. E magari anche i Baschi e gli Irlandesi per restare nei paraggi.

Come ha sottolineato recentemente Ali Çiçek Debattenblog parlando della “terza rivoluzione” (per la cronaca: è con questa medesima denominazione che i marinai di Kronstadt avevano battezzato la loro nuova insurrezione nel 1921):

La teorica politica Hannah Arendt nel suo studio «Sulla Rivoluzione» analizza la rivoluzione francese, quella americana e altre ancora, per determinare «le caratteristiche fondamentali dello spirito rivoluzionario». Le riconosce nella possibilità di iniziare qualcosa di nuovo, e nell’agire comune delle persone. Affronta soprattutto la questione del perché questo «spirito» non ha trovato una «istituzione» e si è perso nelle rivoluzioni”.

In “Potere e Violenza” Hannah Arendt aveva poi anche scritto:

“Se io dico: nessuna delle rivoluzioni, delle quali tuttavia ognuna ha rovesciato una forma di stato e l’ha sostituita con un’altra, è stata in grado di scuotere il concetto di Stato, con questo intendo qualcosa che ho spiegato nel mio libro sulla rivoluzione: dalle rivoluzioni del 18° secolo in effetti ogni grande sconvolgimento ha sviluppato uno spunto di forma di Stato che indipendentemente da tutte le teorie si determinava a partire dalla rivoluzione stessa, ossia dall’esperienza dell’agire insieme e del voler decidere insieme. Questa nuova forma di Stato è il sistema dei consigli, che, come sappiamo, ogni volta è andato distrutto, annientato o direttamente dalla burocrazia degli Stati Nazione o dai burocrati di partito”.

Concludendo così:A me però pare l’unica alternativa che sia comparsa nella storia e che continua a verificarsi”.

Effettivamente la formazione spontanea di consigli appare come una costante di quasi ogni Rivoluzione, almeno di quelle autentiche e non manipolate: da quella francese del 1789 alla Comune del 1871, da quella russa (sia nel 1905 che nel 1917 e poi nel 1921) alle rivoluzioni in Germania e in Austria alla fine della Prima Guerra Mondiale. E anche in quella ungherese del 1956 che iniziò dal consiglio operaio di una fabbrica di lampadine.

E ogni volta spontaneamente, quasi inconsapevolmente. Come se prima di allora eventi simili non fossero mai accaduti.

Ali Çiçek Debattenblog non ha dubbi: “Annovero la rivoluzione in Kurdistan, con la sua carica esplosiva che ha per via della sua posizione geograficamente centrale, ma soprattutto per via della sua concezione di rivoluzione e del suo paradigma sociale, nella serie delle grandi rivoluzioni dell’umanità”.

Ma rispetto alle rivoluzione analizzate da Arendt individua alcune differenze. Innanzitutto il “cambio di paradigma” operato dal movimento di liberazione curdo e dal suo ideologo Apo Ocalan per cui “il PKK è riuscito a «scuotere il concetto di Stato» ed è riuscito a trovare una «istituzione» per lo «spirito rivoluzionario», il confederalismo democratico”.

Inoltre la formazione di consigli nel Rojava dove il paradigma apoista viene applicato “non si è creata spontaneamente, ma è stata una decisione consapevole di una forza organizzata”.

Per concludere che “il sistema dei consigli previsto dal movimento curdo si basa su tradizioni rivoluzionarie consapevoli del Medio Oriente e a livello globale e su una teoria, ossia quella del socialismo democratico”.

Tra le fonti che hanno maggiormente irrigato l’elaborazione del Confederalismo democratico va ricordato sicuramente il pensatore libertario Murray Bookchin, in particolare con il suo saggio sulla Terza rivoluzione («The Third Revolution: Popular Movements in the Revolutionary Era», Vol. 3).***

Per Bookchin la “prima rivoluzione” inizia con l’insurrezione delle larghe masse popolari che cacciano il vecchio regime. Subentra poi la “seconda rivoluzione”, quando la forza politica si concentra in uno Stato centrale mentre la società attiva che ha realizzato la prima rivoluzione viene espulsa dai processi decisionali. A questo segue (forse solo talvolta direi) l’organizzazione democratica delle società che vuole riconquistare la sua forza politica perduta. Questo movimento costituisce la “terza rivoluzione”. Come nel caso di Kronstadt che nel 1921 si rivoltò contro il monopolio del potere bolscevico rilanciando la parola d’ordine Tutto il potere ai Soviet!”.

Secondo Ali Çiçek Debattenblog l’originalità di Abdullah Ocalan è stata quella di ridefinire il ruolo del PKK come “propulsore della terza rivoluzione”. Superando la concezione leninista del partito con “un programma che ha come obiettivo la trasformazione in una società democratica, libera e ugualitaria, una strategia comune per tutti i raggruppamenti sociali che hanno interesse in questo programma, e con una tattica che persegue un’organizzazione ampia di gruppi della società civile, ambientalisti, femministi e culturali e in questo non trascura la legittima autodifesa” (vedi di Öcalan “Oltre lo Stato, il Potere e la Violenza”).

Per quanto mi riguarda, sostanzialmente concordo. Al momento non vedo altre vie d’uscita (realistiche e praticabili) dalla barbarie del liberismo capitalista nella sua “fase suprema” ormai dilagante. Sempre che fuoriuscirne sia ancora possibile, naturalmente.

CHI SPARA SUI CURDI SPARA SULLA RIVOLUZIONE
(ANCHE SE FORSE NON LO SA)

Ma allora: chi oggi spara sui curdi e sul Confederalismo democratico (per ora a salve, ma il maggio 1937 di Barcellona non lo abbiamo dimenticato) a chi spara in realtà?

Spara sull’esperimento sociale che, qui e ora, rappresenta forse il tentativo più significativo, tra quanto è umanamente possibile, di abbattere e superare radicalmente (nei fatti, non solo nelle intenzioni) l’oppressione, la discriminazione, lo sfruttamento (non solamente dell’uomo sull’uomo e sulla donna, ma anche sul Pianeta che vive, sulla “Natura” per capirci…). In sostanza: contro le gerarchie e il potere, comunque inteso.

Questo fuoco incrociato (sia da destra che da sinistra…) è rivolto sul diritto all’autodeterminazione, all’autogoverno, all’autogestione.

Chi spara sui curdi spara anche sui Consigli della rivoluzione tedesca; sui Soviet del 1905, del 1917, del 1921; sulla Telefonica di Barcellona, su Berneri e Nin (maggio 1937), sulle collettività dell’Aragona (quelle represse da Lister nell’agosto 1937). Spara sugli zapatisti (sia quelli storici di Emiliano che su quelli di Marcos); spara sui Lakota di Cavallo Pazzo e sugli eretici ribelli di Gioachino da Fiore; sulle donne di Barcellona sepolte al Fossar (1714), sui proletari asturiani del 1934 e sui gudaris baschi che si batterono contro Franco…

Spara sui ragazzi irlandesi del Bogside, sui palestinesi di Sabra e Shatila (1982) e anche su quelli di Tel al-Zaatar (1976, per chi ha dimenticato come andarono le cose).

Un elenco pressoché infinito di ribelli caduti insorgendo contro l’esistente reificato.

Non avendo altro da perdere che le proprie catene e forse qualche illusione…

E spara anche su milioni di vittime indifese e inermi che non poterono nemmeno ribellarsi. Al massimo tentare, invano, di fuggire…

Come Anna Frank, Sara Gesses e, appunto, Walter Benjanim…

In compenso, sparando sui curdi, sempre metaforicamente, si rischia di alimentare il fatalismo e la rassegnazione di chi ritiene di dover sempre e comunque affidare servilmente le proprie sorti, personali e collettive al Potere, a uno Stato (e quindi a militari, burocrati, capi, guardie, preti, dirigenti, commissari…).

Non credo proprio che questi “cecchini” anticurdi stiano rendendo un buon servizio alla Rivoluzione sociale. Tantomeno all’Umanità oppressa, umiliata e offesa che, almeno in Kurdistan, ha osato sollevare la testa.

Gianni Sartori

*Nota 1: Ultimamente si è parlato, anche troppo e talvolta a sproposito delle Brigate LGBT. Ritengo che tale eccessiva “spettacolarizzazione” (intesa, alla Debord, come forma di mercificazione) mediatica di queste vere o presunte “Brigate LGBT”, possa fare il paio con quella sulle donne curde combattenti (tutte “giovani e belle”, eroiche… e poi dimenticate) di un paio di anni fa.

The Queer Insurrection and Liberation Army (TQILA) era nata come componente di International People’s Guerrilla Forces (Forze Guerrigliere Internazionali Rivoluzionarie Internazionali). Tale IRPGF è membro di International Freedom Battalion, la Brigata Internazionale della Libertà. In turco: Enternasyonalist Özgürlük Taburu; in curdo:Tabûra Azadî ya Înternasyonal.

Questa è l’unità combattente di volontari stranieri (comunisti, anarchici, socialisti, antifascisti… perfino qualche nostalgico di Enver Hoxha, ma non formalizziamoci) che ha operato a fianco delle Unità di Protezione Popolare (YPG) contro le bande dei fascisti islamici dell’Isis.

Ripeto: la Brigata Internazionale della Libertà è stata costituita nel 2015 dal Partito Comunista Marxista Leninista (MLKP), delle Forze Unitarie per la Libertà (BÖG), del Fronte Rivoluzionario MLSPB, della formazione spagnola Reconstrucción Comunista.

Quindi, ricordo ancora ai detrattori di cui sopra, originariamente l’International Freedom Battalion venne organizzata non da anarchici che io sappia, ma soprattutto da comunisti (marxisti-leninisti) turchi e si ispirava dichiaratamente alle Brigate Internazionali che combatterono contro il franchismo.

Da segnalare (negativamente) l’intervento di Maurizio Blondet, uno che per 40 anni ha collaborato con l’editoria di destra. Cristiano integralista e romanista (non in senso calcistico), nella penisola iberica del secolo scorso probabilmente avrebbe aderito al franchismo.

Senza remore, Blondet spande carriolate di disprezzo nei confronti dei militanti di The Queer Insurrection and Liberation Army definendoli, con rara eleganza vagamente demodé, “finocchi”. In realtà, a ben guardare, il suo disprezzo va soprattutto ai comunisti; non sembra essersene ancora accorto chi lo mantiene come contatto fisso nel suo blog.

Questo mentre cita ripetutamente gli articoli (spesso imprecisi, fantascientifici) del gay dichiarato Thierry Meyssan. Lapsus rivelatore? Non era anche un ammiratore di Jorg Haider?

Ho visto che in alcuni articoli Blondet ha legittimamente celebrato la “Giornata del martirio e dei martiri” in memoria delle vittime cristiane in Siria.

Forse bisognerebbe ricordargli le migliaia di cristiani iracheni che avevano trovato rifugio nel Kurdistan “iracheno” e quelli salvati dai combattenti del PKK scesi dalle montagne.

Chi ha versato sangue per portare in salvo popolazioni minorizzate (non mi piace “minoritarie”), sia yazidi che cristiani e alawiti, strappandole alle grinfie degli integralisti?

YPG e PKK hanno difeso anche villaggi turcomanni, pur essendo stati i turcomanni spesso la longa manus di Ankara contro i curdi (vedi il massacro nel campo profughi di Atrush nel 1997).

Paradossalmente in questo caso l’Isis, ugualmente alleato di Ankara, li stava attaccando in quanto… sciiti!?!

Quanto al fatto che alcune affermazioni di tali personaggi siano talvolta magari condivisibili, ci riporta all’ovvietà per cui anche l’orologio rotto due volte al giorno segna l’ora giusta.

**Nota 2: In merito all’accusa di “sionismo” dispensata talvolta gratuitamente e con eccessiva facilità, osservo soltanto che anche Walter Benjamin (riferimento ricorrente nel sito citato) prese seriamente in considerazione l’ipotesi di trasferirsi in Palestina… “Sionista” pure lui…? E Primo Levi allora? Del resto c’è chi sospetta che anche Anna Frank in realtà fosse una “sionista”, magari a sua stessa insaputa.

***Nota 3: Un inciso personale. Bookchin l’avevo ascoltato, sotto al tendone allestito dai compagni anarchici di Mestre, al Convegno internazionale anarchico di Venezia nel 1984. Avevo poi scambiato anche qualche battuta (un’amica faceva da interprete, ricordo), ma all’epoca non lo avevo preso adeguatamente in considerazione. Nella polemica di allora tra “ecologia profonda” (vedi EF!) e la sua “ecologia sociale” mi schieravo con la prima.

Peccavo di presunzione, ovviamente e mi persi quella che poteva essere una delle interviste più significative della mia vita. Peccato!

****Nota 4: Per qualche ulteriore chiarimento, per quanto parziale:

vedi su UIKI onlus:
http://www.uikionlus.com/guerra-giusta/

vedi su Umanità Nova:
http://www.umanitanova.org/2017/10/01/fallacie-e-fandonie/
http://www.umanitanova.org/2017/10/15/quando-il-mio-nemico-e-nemico-del-mio-nemico/

Mio malgrado mi vedo costretto a pubblicizzare anche due dei documenti anti-curdi sopracitati; mi affido al buon senso dei lettori:

http://zecchinellistefano.blogspot.it/2017/10/gli-anarchici-provocatori-e-teppisti-al.html
https://www.alternativacomunista.it/content/view/2492/1/

*****nota 5: Su Walter Benjamin suggerisco qualche lettura:

1) “Hannah Arendt-Walter Benjamin. L’angelo della Storia. Testi, lettere, documenti”.
2) “I Benjamin” di Uwe-Karsten.

Un altro personaggio spesso citato sia dal PDAC che dall’Osservatorio anticapitalista è Andreu Nin, fondatore con Joaquin Maurin del POUM. Ignorando forse che Nin ancora nel 1934 aveva rotto con Trotski, non solo per la questione “entrismo” (prima richiesto da T. nei socialisti spagnoli e rifiutato da N.; poi, a ruoli inversi, operato da N. nel governo catalano e condannato da T.) ma anche sulla soppressione dei soviet in Russia (repressione di Kronstadt e dei maknovisti nel 1921). O almeno questo è quanto emerge da alcuni scritti di Nin. Vedi su “La Batalla” del 4 marzo 1937 dove Nin riprende un articolo di Jaime Balius, anarchico de “Los Amigos de Durruti” che aveva paragonato la situazione catalana a quella della rivoluzione francese “quando si chiedeva a gran voce la sospensione dei club, e a quella vissuta in Unione Sovietica, quando si reclamò la soppressione dei soviet”. Sottolineo che Nin riprendeva testualmente, condividendole, le parole (e i timori) di Balius nel suo articolo. Solo due mesi dopo, i noti eventi di Barcellona in cui vennero assassinati dagli stalinisti sia Nin che molti militanti della CNT (perfino un fratello di Ascaso) e gli anarchici italiani Berneri e Barbieri.

Più recentemente anche l’autore del fondamentale “Operai e capitale”, Mario Tronti, ha voluto onorare l’esperienza consiliare dei soviet. Addirittura in Senato. Forse l’unico (che io sappia) a ricordare in tale sede il centenario della Rivoluzione di ottobre del 1917.

Con tutto il rispetto per l’anziano cantore della “rude razza pagana, senza ideali, senza fede e senza morale”, avrei solo un piccolo appunto da sollevare.

Tronti ha criticato quella che lui considera la trasformazione dei soviet che avrebbero commesso l’errore di “farsi partito invece di farsi Stato”. Non credo sia andata così.

I soviet non si sono mai fatti né Stato né partito. È il partito (bolscevico) che si è fatto Stato, all’epoca. E contemporaneamente si era “fatto” i soviet, esautorandoli. O almeno io la vedo così.

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